(foto LaPresse)

Il virus ha costretto anche la morte a farsi social

Nicola Baroni

Dal digitale usato per sopperire ad alcune mancanze fisiche nella dimensione del fine vita, alla rimozione del tabù con lo slogan "andrà tutto bene". Intervista al tanatologo Davide Sisto

Ci sono momenti in cui è opportuno disconnetterci: per esempio per i lutti, incompatibili con il caos irrispettoso e la superficialità del virtuale. Tutto falso. Potevamo permetterci di crederlo ieri, e saremmo comunque stati in ritardo sulla realtà, che è sempre più ostinata delle abitudini. Dirlo oggi sarebbe folle. Il virus ha costretto anche la morte a “farsi social”, per parafrasare il penultimo libro di Davide Sisto, in cui il filosofo e tanatologo anticipava temi di Digital Death con cui facciamo i conti oggi, che approfondisce nel suo ultimo libro Ricordati di me. “L’emergenza ha reso evidente che il digitale può sopperire ad alcune mancanze fisiche anche nella dimensione del fine vita: dai funerali in streaming ai tablet in terapie intensive e case di cura. Gli stessi anziani oggi vivono positivamente queste opportunità”. Come in un sadico contrappasso, prima insegnavano ai nipoti che non ci si può innamorare online, oggi imparano che online si possono fare cose persino più importanti.

 

Ma non c’è solo il bicchiere mezzo pieno: le distanze che oggi solo il digitale può colmare. Ci sono anche gli abbracci, i cordogli, la condivisione fisica di un rito che lo streaming svuota. “I funerali in streaming sono stati inventati in Irlanda per gli emigrati che non potevano tornare in Patria: non come alternativa, ma come unica opportunità per partecipare. In Cina invece spesso si sono sostituiti alla presenza fisica a causa dei ritmi lavorativi estremi”, spiega Sisto. “Ovviamente trasformare questa opportunità in consuetudine rischierebbe di compromettere l’utilità stessa del rito funebre”. Per capire i limiti del digitale bisogna averne capito i vantaggi, e si torna sempre lì: apocalittici e integrati sono utili solo a giustificare la propria reciproca esistenza. “In Italia, a causa di una tradizione filosofica a lungo ostile alle innovazioni tecnologiche, non siamo ancora riusciti a capire che la distinzione tra reale e virtuale è superata”.

 

C’è un’altra novità portata dal coronavirus: “A nostra memoria è la prima volta in Occidente che i corpi dei defunti scompaiono nel nulla. Qualcosa di analogo avviene nei naufragi o nei disastri aerei, a cui di solito seguono percorsi di aiuto psicologico per i cari. Il corpo continua ad avere una funzione simbolica fondamentale per iniziare a elaborare il lutto, e la sua assenza può provocare traumi. A livello collettivo si pensi alla guerriglia e alla depressione causate dal rapimento della salma di Evita Perón in Argentina. Credo che servano e serviranno psicologi e tanatologi per aiutare chi è meno attrezzato ad affrontare queste perdite”. Ma per Davide Sisto la Death Education, cioè una pedagogia che insegni il ruolo della morte, sarebbe utile a tutti nelle odierne società occidentali: “Oggi la morte è rimossa dal discorso pubblico, complice il fatto che negli ultimi decenni i nostri maggiori problemi sono stati prevalentemente di natura economica. Non fare i conti con la propria fragilità e mortalità e scoprirla all’improvviso porta ai comportamenti sconsiderati che abbiamo visto, di chi prendeva d’assalto i supermercati o le piste da sci. Un siriano non avrebbe reagito al modo nostro”. Resta un dubbio: chi ha una certa consuetudine con un figlio di Dio crocifisso e spera nella resurrezione della carne parte con la lezione di Death Education già imparata? “Un credente praticante forse è più allenato a fare i conti con quell’idea. Tuttavia il tabu della morte non è figlio solo della secolarizzazione. Ha anche cause di natura economica e politica: il morente è una figura debole, implica un’assenza, un fermarsi inaccettabili nella concezione di produzione continua e infinita del neoliberismo. Non a caso lo slogan oggi è #andratuttobene: più rimozione di così”.

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