(foto LaPresse)

In America una fetta di mondo tech minimizza il virus. La redenzione di Musk

Eugenio Cau

L'ordine di fermarsi e chiudersi in casa manda fuori di testa gli imprenditori della Silicon Valley. Il Covid ridotto a errore statistico

Milano. “Il panico da coronavirus è stupido”, twittò il 6 marzo Elon Musk, uno dei più grandi inventori e imprenditori del nostro tempo, ceo di Tesla e fondatore di innumerevoli imprese. Il 6 marzo la grande ondata di contagi non era ancora arrivata negli Stati Uniti, ma in Italia c’erano già stati quasi 200 morti, di lì a poco ci sarebbe stato il lockdown e tutti avevamo visto cos’era successo in Cina. Ma Musk, che è considerato uno degli uomini più brillanti della nostra èra, per settimane ha negato che il virus fosse un problema grave. Ha continuato a twittare sul fatto che il vero errore non era farsi prendere dal Covid ma dalla paura, poi lunedì della settimana scorsa ha inviato un comunicato a tutti i suoi dipendenti in cui sosteneva che “secondo le sue stime” soltanto lo 0,1 per cento della popolazione americana avrebbe contratto il virus (sono comunque più di 300 mila persone, e le stime vere sono infinitamente più gravi) e che alla fine gli incidenti d’auto fanno più morti. Musk ha tenuto aperte la sua fabbrica Tesla a Freemont, in California, fino all’ultimo, anche quando tutti gli altri ormai avevano chiuso, e soltanto giovedì della settimana scorsa ha ceduto alle pressioni del governo e alle proteste dei dipendenti, mandando tutti a casa.

 

Il grande pioniere tech non è l’unico a pensare che questa emergenza da coronavirus sia ampiamente esagerata, benché ormai sia chiaro che la crisi è reale e terribile e capace di decimare una parte consistente della popolazione. Ma nel mondo della tecnologia americano c’è tutto un gruppo di imprenditori, manager e investitori convinti che la crisi sia un’esagerazione, e che magari il problema potrà anche essere grave, ma senz’altro si può ingegnerizzare una soluzione. Così per esempio ancora pochi giorni fa Michael Saylor, cofondatore di una compagnia che fa software per il business in Virginia, scriveva ai suoi 2.500 dipendenti che “se vogliamo mantenere la nostra produttività, dobbiamo continuare a lavorare in ufficio”, e chiedeva loro di guardare le cose in prospettiva: anche se un po' di anziani “morirà per una malattia famosa e non per vecchiaia”, questo al massimo significherà che “l’aspettativa di vita a livello mondiale sarà calata di qualche settimana”. Il coronavirus è praticamente un errore statistico. Anche Tim Draper, un celebre venture capitalist, il 14 marzo ha twittato: “La paura è peggiore del virus. Tenete aperti i vostri business” (tre giorni dopo si è scusato e ha detto che sostiene un lockdown di due settimane).

 

La settimana scorsa un altro celebre esperto di tecnologia, Aaron Ginn, ha pubblicato su Medium un lungo articolo in cui denunciava di “isteria” le risposte dei governi al virus, e avanzava una serie di ipotesi statistiche che mostravano che il coronavirus, in fondo, non è poi tanto grave e se ne andrà con l’estate. L’articolo di Ginn ha scatenato il pandemonio, e nel fine settimana Medium l’ha cancellato (è stato ricaricato su siti vicini alla destra populista), ma nel frattempo molti altri esperti di tecnologia americani l’avevano condiviso con entusiasmo.

 

Questo non significa che tutte le aziende tecnologiche americane stiano minimizzando il pericolo, anzi: Twitter è stata la prima grossa compagnia del paese a dire ai suoi dipendenti di lavorare da casa, Facebook e Google si impegnano da settimane per combattere la disinformazione sul virus. Ma nel modo di pensare di molti nella Silicon Valley è molto forte una specie di hybris ottimistica, ben rappresentata da Elon Musk, che è abituato, come ha scritto il Wall Street Journal, a “guardare nell’abisso e resistere quando gli altri cedono”. Musk è quello che propose di salvare i ragazzini thailandesi rimasti imprigionati in una grotta invasa dall’acqua costruendo dei sottomarini (il caso fu molto celebre due anni fa). E’ quello che siccome il traffico di Los Angeles lo infastidiva, ha fondato un’azienda per costruire autostrade sotterranee. E’ per questo che il coronavirus disturba così tanto una parte di imprenditori tech: l’idea che siamo tutti costretti a fermarci e chiuderci in casa e che non ci sia una soluzione smart e ingegneristica al problema li manda fuori di testa.

 

Ma la mitologia della Silicon Valley è fatta anche di superingegneri che trovano soluzioni a problemi che per tutti gli altri sono insormontabili, e forse anche Musk sta cambiando idea e ha deciso di accettare la sfida: ieri ha annunciato di aver donato 1.000 ventilatori allo stato della California, e un paio di giorni prima ha annunciato di essere in “discussioni ingegneristiche” con un’azienda di prodotti medicali per costruire “ventilatori all’avanguardia”. Tipico Musk.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.