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Cosa dice la scienza del Favipiravir, il "farmaco giapponese" che dovrebbe curare Covid-19

Enrico Bucci e Gennaro Ciliberto*

Bisogna evitare di fomentare false speranze sull'onda del sensazionalismo di un video su Youtube. I test finora effettuati su questo antinfluenzale suggeriscono di essere molto cauti, anche perché il farmaco potrebbe essere addirittura controproducente

È comprensibile che in questo momento di grande diffusione dell’epidemia da coronavirus caratterizzato da altissimi numeri di pazienti ricoverati, intasamento delle terapie intensive e purtroppo ingente perdita di vite umane si desiderino fortemente rapide soluzioni mediche per i nostri pazienti, soprattutto attraverso proposte di utilizzo di farmaci già disponibili e da “riciclare” in tempi rapidi. Tuttavia dobbiamo stare attenti a non alimentare speranze infondate su farmaci le cui evidenze sono modeste se non insufficienti e anche a dosare molto oculatamente gli investimenti di ulteriori risorse di personale e finanziarie in un momento in cui il nostro sistema sanitario è già abbondantemente sotto stress.

 

Esempio eclatante è quello dell’uso combinato della combinazione di due noti antivirali, il lopinavir ed il ritonavir che è stato per un po’ sbandierato come una possibile via terapeutica contro il coronavirus e che uno studio clinico ben disegnato e pubblicato pochi giorni fa sulla prestigiosissima rivista New England journal of Medicine ha chiaramente dimostrato di nessuna efficacia (Cao et al, 2020). Questo esempio deve essere di monito per tutti. Ovviamente questo non vuol dire che non ci possono essere delle speranze alle porte, ma che queste devono essere ben vagliate e ponderate.

 

A questo riguardo la ribalta è stata presa negli ultimi giorni in Italia da un farmaco giapponese, il Favipiravir (nome commerciale "Avigan"), che è finora stato approvato solo in Giappone come antivirale per l’influenza. La proposta di usarlo contro il coronavirus è partita da un video Youtube postato da un imprenditore romano di ritorno dal Giappone e ha subito destato grandi aspettative anche a livello di alcuni politici. Cosa sappiamo di questo farmaco?

 

In primo luogo il farmaco è stato sviluppato un po' di tempo fa come un antivirale ad ampio spettro in quanto colpisce l’attività di un enzima. La RNA polimerasi RNA dipendente dei virus a RNA, come il virus dell’influenza, il virus dell’Ebola o lo stesso Sars-CoV-2 che sta imperversando. Poiché però questo enzima ha delle differenze più o meno grandi tra i vari virus a RNA, la capacità del farmaco di bloccarne il funzionamento, e quindi la sua potenza, può variare da caso a caso.

 

E in questo senso sappiamo da uno studio recentissimo che ne misura la sua potenza in studi su cellule infettate dal coronavirus (Wang et al, celle Research, 2020) che il Favipiravir (Avigan) è di fatto poco potente. Ce ne vuole cioè una grande quantità per poter bloccare interamente la crescita del virus in provetta. Per capirci, ce ne vogliono almeno 100 volte di più di un altro antivirale, il Remdesivir, in precedenza sviluppato per Ebola e per il quale l'AIFA ha deciso pochi giorni fa una sperimentazione in Italia. Quindi, alla base già di questa prima considerazione il Remdesivir parte avvantaggiato rispetto al Favipiravir.

 

In particolare, viene subito da chiedersi se siamo in grado di dosare il farmaco sui pazienti in dosi che a questo punto dovrebbero essere massicce, senza avere effetti collaterali. Inoltre c’è il concreto rischio di sottodosarlo, cioè di darne una quantità insufficiente a bloccare la replicazione virale, soprattutto quando la carica virale è molto elevata, come nei pazienti più gravi. Questa incapacità di funzionare efficacemente è stata determinata in sperimentazioni cliniche condotte in Africa negli anni scorsi su pazienti durante infezioni epidemiche da virus dell’Ebola o da un altro virus chiamato Lassa, che in effetti si sono chiuse con un fallimento (come riassunto da Delang et al, Antiviral Res 2018).

 

Collegato a questo vogliamo anche sottolineare un rischio intrinseco al sottodosaggio. Il farmaco, per il suo meccanismo di azione di interferenza con la RNA polimerasi RNA-dipendente, agisce aumentando il tasso di mutazione del genoma virale. Se il tasso mutazionale supera un certo livello, il virus non è più capace di replicarsi. Diciamo che si bloccano gli ingranaggi alla base della moltiplicazione virale. Se però sottodosiamo il farmaco, rischiamo di non raggiungere questa soglia. Nel frattempo il virus continua a replicarsi, semmai meno efficientemente, però in forma iper-mutata. E’ evidente quindi il rischio, sottodosando, di aumentare il grado di variabilità del virus nella popolazione e la sua potenziale resistenza ad altri farmaci ovvero a vaccini; il che, naturalmente, vale anche per altri virus a RNA che accidentalmente dovessero trovarsi esposti al farmaco usato nei pazienti COVID-19. Un rischio di cui non ci potremmo accorgere subito, ma solo dopo un po' di tempo. Meglio quindi secondo la nostra opinione evitare questo rischio.

 

Infine, cosa sappiamo del "farmaco giapponese" e dell’esperienza clinica in pazienti col coronavirus? Finora solo due studi pubblicati da ricercatori cinesi. Nel più attendibile dei due, si discute di una sperimentazione clinica con un braccio di trattamento costituito da 35 pazienti trattati con Favipiravir e un braccio di controllo costituito da  pazienti trattati con il Ritonavir di cui abbiamo parlato all’inizio. Peccato che lo studio non sia stato eseguito in cieco, né con una selezione chiara di pazienti e controlli che tenesse conto di età, sesso e altre caratteristiche che devono essere bilanciate fra i due gruppi. I risultati apparenti? I pazienti trattati con Favipiravir sono indicati come avere una più rapida eliminazione del coronavirus ed un più rapido miglioramento dei sintomi. Ma sono gli stessi autori ad usare toni cauti data la natura preliminare dello studio, evidenziando che non si possono trarre conclusioni da uno studio in quelle condizioni. Inoltre le autorità cinesi stesse hanno dichiarato che il farmaco sembra essere poco efficace nei pazienti con sintomi più severi e con maggiore carica virale.

  

Abbiamo voluto con questo articolo cercare di rappresentare con obiettività quanto si sa su questo farmaco e richiamare l’attenzione di tutti, inclusi i decisori politici, sulla necessità di prendere importanti decisioni sulla base solo di solide evidenze scientifiche senza rischiose fughe in avanti dettate dall’emotività. 

 

*Enrico BucciAdjunct Professor in Systems Biology Sbarro Health Research Organization, c/o Temple University

Gennaro CilibertoDirettore Scientifico dell'IRCCS Regina Elena (Roma) e Federazione italiana Scienze della Vita

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