Soldi, fornitori e soluzioni. Le imprese di fronte al rischio contagio

Marianna Rizzini

Rischio default per il 65 per cento delle Pmi italiane. Che cosa si può fare per evitare l’effetto domino, dopo l’ultima stretta del governo sulle attività non essenziali

Roma. Come evitare l’effetto domino sulle imprese, con pericolo di non-pagamento (a catena) dei fornitori, nel momento in cui, dopo l’ultima stretta sulle attività non essenziali, le conseguenze dei provvedimenti di contenimento-Coronavirus diventano effetti collaterali urgenti di cui tenere conto? Ieri Milano Finanza, citando uno studio condotto da modefinance, la prima agenzia di rating Fintech d’Europa, parlava di rischio default per il 65 per cento delle Pmi italiane, quelle con rating intermedio (tra B e BBB).

  

Che cosa si può fare? Qualche giorno fa Confindustria, nel documento “Affrontiamo l’emergenza economica per la tutela del lavoro”, formulava alcune proposte “per una reazione immediata”, proposte che guardano sia all’attivazione di risorse europee per un piano anticiclico straordinario sia a interventi urgenti per il sostegno finanziario delle imprese piccole, medie e grandi, con “sospensione immediata per tutte le imprese, a prescindere dalle soglie di fatturato, dei versamenti fiscali e contributivi di prossima scadenza e un allungamento del periodo di rateizzazione”, e con rafforzamento del Fondo di Garanzia e delle misure straordinarie per la liquidità, in modo da guadagnare tempo grazie alla garanzia dello stato e con risorse europee (attraverso CDP, BEI e FEI).

  

Si parla, in Confindustria, specie oggi dopo la stretta sulle attività non essenziali, di implementare meccanismi che consentano alle imprese di scavallare la fase dell’emergenza senza soccombere, visti i costi fissi, sostenendo intanto anche le banche: interventi simili a quelli previsti in caso di terremoto-calamità naturale. Su questo aspetto si pensa anche a un intervento a livello europeo, specie per quanto riguarda le eventuali penali per inadempienze dovute all’emergenza.

  

Dall’A.P.I., l’associazione piccole e medie industrie, il presidente Paolo Galassi sottolinea la “capacità di reazione e l’energia degli imprenditori, che negli ultimi vent’anni hanno dato prova di saper rispondere ai cambiamenti dovuti al passaggio all’euro, prima, e poi, dieci anni fa, alla grande crisi da globalizzazione. Però adesso bisogna dare un segno forte di presenza dello Stato, non devono sentirsi soli”. Poi, dice Galassi, “bisognerebbe tenere conto del fatto che in Italia non si è più molto investito sul settore manifatturiero, una delle nostre tradizionali attività. Ci sono molti casi di imprese che si riforniscono per materie prime o materiali di base altrove – Est Europa, per esempio – e, dopo aver lavorato e studiato il prodotto qui, lo rivendono a Ovest. Ci sono imprese strozzate già in partenza da meccanismi burocratici che proprio in questo frangente tragico abbiamo visto non essere essenziali, vedi la costruzione di ospedali in 15 giorni. Abbiamo imprese che rischiano di fallire se l’emergenza si protrae, ma a nessuna manca l’energia. Sono ottimista, da imprenditore, ma 25 miliardi di euro non bastano per riprendersi”.

  

Intanto c’è chi, come Fabiano Schivardi, docente di Economia industriale e pro-rettore alla Ricerca alla Luiss, affronta, in uno studio realizzato con l’ufficio studi di Cerved, il tema del “Come evitare il contagio finanziario”, stimando il numero di imprese che potrebbero entrare in difficoltà finanziaria a seguito dell’emergenza Covid-19 entro la fine del 2020. Per far fronte alla crisi, scrive Schivardi, servirebbero dai 30 agli ottanta miliardi a seconda dello scenario (ottimistico o pessimistico), e sarebbero coinvolti dai 2,4 ai 3,2 milioni di lavoratori. In questa fase, si legge nello studio, “obiettivo fondamentale della politica economica è quello di evitare i fallimenti. E’ un obiettivo condiviso e la risposta data dalle istituzioni è quella giusta: whatever it takes. Ma per funzionare ha bisogno di essere credibile, e quindi sarebbe utile avere un’idea di how much it takes”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.