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Bisogna sfruttare la chiusura per riaprire il prima possibile

Luigi Guiso e Daniele Terlizzese*

Il blocco delle attività può costare dai 2,7 ai 9 punti di pil. Usiamo questi giorni per riorganizzare la produzione

Nonostante le misure di distanziamento sociale già introdotte, il perdurare dell’emergenza sanitaria ha indotto il governo a restringere ulteriormente il movimento delle persone, imponendo che fino al 3 aprile ampi settori dell’economia, alcuni dei quali già operavano a scartamento ridotto per le difficoltà derivanti dai vincoli alla mobilità e all’interazione fisica tra le persone, si fermino del tutto. E’ una cura drastica, che quasi certamente conterrà la diffusione del contagio e finalmente invertirà la pendenza della dolorosa curva dei decessi. Allo stesso tempo è cruciale metterne in luce il costo economico, per orientare al meglio l’uso delle risorse messe in campo per affrontarla.

 

Abbiamo stimato, con qualche inevitabile approssimazione, che il peso complessivo sul pil dei settori già chiusi dall’11 marzo e di quelli che resteranno chiusi da ieri (23 marzo), sia intorno al 47 per cento. La chiusura disposta dal governo è prevista fino al 3 aprile, cioè altri 11 giorni lavorativi dal 23 marzo; tenendo conto dei blocchi già in essere, l’effetto meccanico è una riduzione del pil per l’anno corrente di circa 2,7 punti percentuali; se la chiusura dovesse protrarsi fino alla fine di aprile, cioè per 29 giorni lavorativi, sarebbe di circa 6 punti percentuali; sarebbe di 9 punti se, come nel caso della Cina, la chiusura dovesse durare 45 giorni. E questo nell’ipotesi che:

a) l’operatività dei settori che restano aperti non sia ridotta dal blocco degli altri settori;

b) la domanda interna rimanga invariata.

 

In entrambi i casi sono ipotesi ottimistiche. Per quanto oculata sia stata la selezione dei settori essenziali da lasciare aperti, e flessibile la possibilità di aggiustare il tiro (come previsto dal decreto), il rischio che si creino strozzature, a monte o a valle, e ripercussioni anche sulla loro capacità produttiva è elevato data la complessità delle interconnessioni settoriali. Una contrazione della domanda, in condizioni di incertezza economica e sanitaria come quelle che stiamo vivendo, è pressoché certa. Inoltre, non possiamo escludere che, conclusa una prima fase acuta e ripartita l’attività, si determinino altre ondate di contagio, le quali richiederebbero ulteriori chiusure.

 

Il costo potenziale è enorme e diventa prioritario limitarne per quanto possibile l’entità. L’economia deve tornare a operare al più presto
e in sicurezza, forse persino in una situazione in cui il virus non è stato
del tutto domato. Parafrasando Winston Churchill, non lasciamo
che i giorni di chiusura vadano sprecati 

 

Si tratta dunque, con tutta evidenza, di un costo potenziale enorme, e prima ancora di riflettere su come assorbirlo (qualche idea l’avevamo offerta nell’articolo “Tre strade per mitigare la crisi del coronavirus”, uscito su questo giornale prima di conoscere le nuove misure) diventa prioritario cercare di limitarne per quanto possibile l’entità.

 

Dobbiamo sfruttare il periodo di chiusura per mettere l’economia in grado di ritornare operativa al più presto, forse persino in una situazione in cui la propagazione del virus non sia stata ancora del tutto domata. E’ necessario usare il periodo di sospensione dell’attività per modificare, in tutti i casi in cui questo sia possibile, i modi di produzione, così da garantire condizioni di sicurezza per i lavoratori e consentire loro di tornare al più presto a produrre. Non abbiamo le competenze tecniche e ingegneristiche per offrire ricette dettagliate. Ci sembra però che, oltre all’ovvia sanificazione degli ambienti di lavoro, alcune iniziative potrebbero essere utili.

I) La prima è distribuire il lavoro su un arco giornaliero più lungo, istituendo turni tra gruppi di lavoratori che non si incontrano e sono ciascuno in numero pressoché dimezzato rispetto al normale, per consentire un maggiore spazio fisico tra i singoli. Notiamo, per inciso, che questo è l’opposto di alcune iniziative locali per la riduzione degli orari di apertura dei negozi, a nostro avviso improvvide.

II) Collegata alla turnazione, prevedere spostamenti scaglionati verso i luoghi di lavoro. Simultaneamente aumentare la frequenza delle corse dei mezzi pubblici, così da ridurre sensibilmente l’affollamento durante il trasporto verso i luoghi di lavoro.

III) Riconvertire gli impianti che si prestano allo scopo per aumentare la produzione di mezzi di protezione individuale, così da poter opportunamente equipaggiare i lavoratori alla riapertura della produzione.

IV) Prevedere degli screening sanitari all’ingresso e all’uscita, per evitare che lavoratori sintomatici o pauci-sintomatici interagiscano con gli altri.

V) Modificare, nei casi in cui sia possibile, l’organizzazione interna degli spazi, per aumentare la distanza tra i lavoratori.

VI) Riportare inizialmente al lavoro solo i lavoratori più giovani, per evitare l’esposizione al contagio di quelli nelle fasce d’età in cui il rischio di severe complicanze a seguito del virus è più elevato. Riservare il lavoro da casa ai lavoratori più anziani e immunodepressi.

 

Oltre a destinare le risorse disponibili ad aumentare la capacità ricettiva delle strutture sanitarie, crediamo che esse dovrebbero essere concentrate, nei prossimi giorni, a mettere in campo iniziative come queste, o comunque a quelle iniziative che, con analoga finalità, potranno essere individuate da esperti di organizzazione, ricerca operativa, ingegneria gestionale, medici ed epidemiologi.

Parafrasando il famoso ammonimento di Winston Churchill, per depurarlo dal cinismo che non gli faceva difetto, non lasciamo che i giorni di chiusura decisi dal governo vadano sprecati; facciamo tutti il massimo sforzo affinché essi servano a evitarne altri.

 

*Luigi Guiso, Axa professor of Household Finance Einaudi Institute for Economics and Finance

Daniele Terlizzese, Direttore dell’Einaudi Institute for Economics and Finance

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