Giuseppe Conte alla Borsa di Milano (foto LaPresse)

La quarantena economica dell'Italia

Claudio Cerasa

Spread, crescita, imprese, investimenti. Cinque mesi dopo la nascita del BisConte, il governo ha trovato o no un vaccino per guarire l’inaffidabilità del paese? L’Europa non è più un tabù, ma il rischio Italia oggi si misura sulla certezza del diritto. Occhio

Sono passati esattamente cinque mesi dal giorno in cui il secondo governo Conte ha prestato giuramento di fronte al capo dello stato e cinque mesi dopo si può dire che la quarantena in cui l’Italia è stata costretta per smaltire le tossine accumulate durante la stagione gialloverde può considerarsi ultimata solo a metà. Rispetto alla stagione del doppio, folle e nocivo populismo, l’Italia – per gli investitori – non rappresenta più, almeno nel breve termine, un rischio relativamente alle sue pulsioni antieuropeiste e i dati che ce lo confermano sono almeno due.

 

Il primo dato riguarda lo spread, il differenziale di rendimento fra i titoli di stato italiani a dieci anni e quelli tedeschi, e giusto ieri lo spread è tornato a scendere nuovamente, andando sotto la soglia dei 130 punti, ai minimi dallo scorso ottobre (secondo l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina e secondo i vertici di Pimco lo spread di questo passo scenderà sotto quota 100 entro la fine dell’anno). Il secondo dato riguarda un segnale certamente incoraggiante per la nostra economia: il fatto che gli stranieri siano tornati a comprare debito pubblico italiano (secondo i calcoli del Mef, nel 2019 gli acquirenti stranieri sono intervenuti acquistando in misura superiore al 2018, con una cifra che si avvicina agli 80 miliardi di Btp acquistati). A questi dati poi ne vanno aggiunti anche degli altri che vanno quantomeno a controbilanciare i dati negativi relativi alla crescita (l’Istat stima che nel quarto trimestre del 2019 il prodotto interno lordo sia diminuito dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente: il maggior calo trimestrale dall’inizio del 2013) e quelli altrettanto preoccupanti relativi all’occupazione (nell’ultimo trimestre del 2019 il numero di occupati è tornato a diminuire di 75 mila unità e il tasso di occupazione è tornato a scendere a quota 59,2 per cento) e quei dati sono quelli registrati ieri dagli indici che misurano la fiducia delle imprese, saliti a gennaio da 99,2 punti a 100,7 punti (i servizi, inoltre, hanno visto un miglioramento delle condizioni operative e l’indagine Pmi di gennaio è stata al di sopra delle aspettative: 51,4 punti, contro un’attesa pari a 50,5 punti).

 

I dati che vi abbiamo riportato ci dicono che nel medio termine l’Italia ha smesso di essere un fattore di rischio per via delle sue posizioni antieuropeiste (trucerie no, grazie) e ci confermano che i problemi che riguardano il nostro paese sono purtroppo quelli tradizionali: una crescita bassa (la più bassa dell’Eurozona), una disoccupazione giovanile alta (la terza più alta dell’Eurozona), un debito pubblico alto (il secondo più alto dell’Eurozona), una produttività stagnante (gli ultimi dati Eurostat ci dicono che tra il 2008 e il 2018 la produttività del lavoro per occupato in termini reali è aumentata in quasi tutti gli stati membri dell’Ue tranne che in Italia, in Finlandia, in Grecia e in Lussemburgo).

 

Ma ciò che gli indici di fiducia del nostro paese non riescono a registrare in modo ufficiale è un qualcosa che riguarda un nuovo e ulteriore fattore di rischio per nulla ufficioso che ha a che fare con un pericolo invisibile con cui i grandi fondi di investimento stanno iniziando a fare i conti: lo spread sulla certezza del diritto. Non c’è dubbio che nei prossimi mesi l’economia italiana – insieme con quella europea – subirà un rallentamento a causa dell’isolamento della Cina generato dalle conseguenze della diffusione del coronavirus e nei prossimi giorni avremo delle prime proiezioni anche sull’impatto che la quarantena cinese avrà sulla nostra economia (Goldman Sachs ha stimato un calo globale di 0,3 punti di pil nel 2020 e secondo diversi analisti la crisi cinese dovrebbe avere un impatto sul pil della Cina pari allo 0,5 per cento). Ma per quanto ci si possa girare attorno, la ragione per cui diversi fondi di investimento internazionali sconsigliano oggi in via ufficiosa di investire in Italia almeno fino al 2022 – data in cui si capirà se nei successivi sette anni l’Italia avrà un capo dello stato più simile al modello Mario Draghi o più simile al modello Marcello Foa – è legata a quello che in altri tempi si sarebbe chiamato un pericoloso combinato disposto. E al centro del rischio-Italia oggi c’è un tema che ha a che fare con i temi della giustizia e in particolare con i temi legati alla certezza del diritto.

 

L’Italia oggi non mette più in discussione l’Europa, e questo è un bene, ma il suo ritrovato europeismo viene compensato in negativo da tre fatti che non sono sfuggiti agli occhi degli investitori: il caso Ilva, il caso Autostrade, il caso prescrizione. Nel primo caso, l’Italia ha mostrato la sua incapacità di rispettare i patti con gli investitori e a causa di una scelta scellerata della politica dettata da un giustizialismo di fondo sono stati messi alla finestra investitori che avevano stanziato per l’Ilva la bellezza di tre miliardi. Nel secondo caso, l’Italia, minacciando di revocare le concessioni ad Autostrade senza avere in mano una sentenza definitiva capace di accertare le eventuali responsabilità di una società, ha scelto di mettere in mostra la sua incapacità di rispettare i patti e un paese che mostra di essere pronto a violare accordi scritti spinto da una sete di giustizia sommaria è un paese che scoraggia a investire all’interno dei propri confini. Il terzo caso, ovviamente, riguarda la progressiva trasformazione dei processi in processi eterni con una riforma che abolendo la prescrizione andrà a incidere sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo. JPMorgan, fondo di investimento che nel 2019 ha avuto in pancia un patrimonio totale di 2,73 trilioni di dollari, proprio per queste ragioni ha fatto sapere ad alcuni importanti imprenditori italiani che per due anni non consiglierà di investire massicciamente in Italia. E non ci vuole molto a capire che un paese che trasforma gli imputati in colpevoli fino a prova contraria giocando con le concessioni e con la certezza delle regole è un paese a cui non basta l’europeismo per uscire dalla quarantena.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.