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L'Italia crescerà solo se imparerà questi numeri sulla produttività

Stefano Firpo e Andrea Tavecchio

Il paese impiega capitale con capacità di generare rendimenti produttivi a livelli inferiori rispetto al 1995. Come uscirne

Poco più di un mese fa, l’Istat ha pubblicato le sue “Misure di produttività”. Negli ultimi 24 anni, secondo questo spesso dimenticato rapporto, la produttività del lavoro è cresciuta in media dello 0,4 per cento all’anno, collocando l’Italia in coda a tutti i Paesi dell’Ocse. Per fare un confronto, in Germania, nel medesimo periodo, la produttività del lavoro è cresciuta a tassi annui tre volte superiori al nostro.

 

Se invece pendiamo la produttività del capitale (ovvero la misura di quanto si produce con lo stock di capitale accumulato tramite gli investimenti), essa è diminuita dello 0,7 per cento all’anno. Banalizzando oggi impieghiamo capitale con una capacità di generare rendimenti produttivi di quasi il 20 per cento inferiore a quella con cui lo facevamo nel 1995: un vero flop nell’allocare gli investimenti. E se guardiamo alla produttività totale dei fattori (TFP) – che misura di quanto il progresso tecnico e organizzativo contribuisca a un più efficiente combinazione di capitale e lavoro – essa è rimasta a zero, mentre in Germania la TFP cresceva dello 0,8 per cento all’anno.

 

 

Questi dati, certo non lusinghieri, sono per fortuna medie del pollo di Trilussa e descrivono un paese che non esiste nella realtà. Per fortuna molte aziende italiane, tipicamente di media dimensione, e molti distretti e filiere industriali, su tutti i mezzi di trasporto, la meccanica/maccatronica, la farmaceutica, il tessile/abbigliamento, hanno avuto performance di produttività di tutto rispetto, talora persino superiori a quelle prodotte dai nostri primi competitor come Francia e Germania. Nel settore manifatturiero, ad esempio, le nostre performance di produttività non sono dissimili da quelle tedesche. Senza la capacità della nostra meccanica strumentale di rimanere competitiva sui mercati internazionali, non avremmo un saldo di bilancia commerciale positivo con il resto del mondo (per la sola meccanica esso vale quasi 60 miliardi di euro) e un motore di produzione di ricchezza fondamentale per garantire, ancora oggi, il nostro benessere e, con esso, la sostenibilità delle nostre finanze pubbliche. Senza queste forze e il loro contributo tramite esportazioni dopo la crisi del 2008, il quadro medio sarebbe ancor più tragico: il nostro pil sarebbe di ben 7 punti percentuali inferiore e il debito pubblico sarebbe già intorno al 145 per cento.

 

 

Risulta, quindi, fondamentale per un paese trasformatore come l’Italia sviluppare politiche che sappiano contribuire allo sviluppo dei nostri vantaggi comparati usando la tecnologia e l’innovazione per mantenerci competitivi sui mercati: gli spazi di mercato sono significativi visto che la quota del nostro export, oggi pari al 30 per cento del pil, può crescere molto, basti pensare che in Germania è vicina al 50 per cento.

 

Ancora oggi il principale insieme di misure di politica industriale pro-innovazione, il Piano industria 4.0, fa fatica, per quanto opportunamente riproposto nella legge di Bilancio 2020, a diventare un filone di policy strutturale su cui costruire una duratura prospettiva di recupero di produttività per il nostro tessuto produttivo. Il suo rinnovo a singhiozzo, con proroghe fatte di anno in anno, ne impedisce l’utilizzo su quegli investimenti, spesso i più trasformativi, che richiedono una programmazione pluriannuale e necessitano di un quadro stabile per essere attivati. L’orizzonte di piano va quindi esteso su un arco temporale almeno di 3 anni.

 

Un orizzonte temporale più lungo per “Industria 4.0” – che ricordiamo significa credito di imposta all’acquisto di macchinari, software e hardware, incentivi alle spese in ricerca, sviluppo e innovazione, defiscalizzazioni su redditi derivanti da sfruttamento di brevetti e proprietà intellettuale e contributi in conto interessi sui finanziamenti per l’acquisto di macchinari – darebbe anche il tempo alle norme di essere meglio conosciute e più diffusamente utilizzate. Non in tanti hanno capito che combinando gli incentivi fiscali del Piano 4.0 si possono ottenere contributi compresi fra il 40 e l’80 per cento del costo delle tecnologie acquistate. Un vantaggio fiscale unico in Europa, che può portare a una tassazione di impresa azzerata se non addirittura negativa per via delle presenza di crediti di imposta.

 

Un secondo pilatro per spingere la crescita sta nello sforzo che la Pubblica Amministrazione deve fare per integrare e adottare le nuove tecnologie per migliorare i tanti servizi pubblici lasciati tropo spesso in condizioni di abbandono. Il crollo della nostra produttività non è un fenomeno indipendente da una macchina amministrativa diventata negli ultimi 20 anni sempre più complessa, e anchilosata complice anche un disordinato processo di devolution di competenze tra stato centrale e le regioni ed un prolungato periodo di investimenti infrastrutturali troppo timidi. Senza investimenti un paese prima sfiorisce e poi crolla a pezzi, anche in senso non metaforico.

 

Grazie alla tecnologia si potrebbero trovare modelli di gestione, anche in concessione, di molte nostre infrastrutture in grado di garantire un migliore equilibrio fra redditività, investimenti e qualità dei servizi. Si potrebbe ad esempio integrare e usare sensoristica, algoritmi di intelligenza artificiale combinate con le conoscenze dell’ingegneria civile per rendere più sicure le nostre infrastrutture, più mirate e tempestive le opere di manutenzione, e persino più simmetrico il rapporto informativo fra stato e concessionari sulle effettive condizioni di obsolescenza di infrastrutture delicate e quindi più penetrante e reattivo l’esercizio delle funzioni di controllo.

 

Policy fortemente pro crescita e produttività dovrebbero essere al centro del dibattito politico; dovrebbero essere l’ossessione della nostra politica economica e fiscale. All’Italia serve coraggio riformista, non piani (ovviamente non finanziati e non finanziabili) dai suggestivi nomi inglesi, prepensionamenti a pioggia e misure estemporanee senza visione.

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