Un interesse comune
Come è possibile conciliare la salvaguardia della salute con quella dell’economia e del lavoro
Il mondo della finanza, Confindustria, il pianeta produttivo vogliono tutti riaprire, senza badare alla nostra salute, senza fare ammenda per le disastrose decisioni prese in passato e senza preoccuparsi per il futuro. Gli epidemiologi ed i medici vorrebbero rinchiuderci tutti ai domiciliari, facendoci alla fine fare la fame, nonché producendo come effetto proprio la fine del finanziamento della sanità pubblica per mancanza di tasse (che si possono imporre solo in presenza di attività economica).
Questa è la narrazione polarizzata e polarizzante che sembra suggerire un insanabile contrasto fra due interessi primari, quello alla salute e quello al lavoro (alla base dell’economia). Le soluzioni che sarebbero più indicate per salvaguardare la nostra salute uccidono l’economia, e viceversa le azioni da intraprendere per risollevare al meglio la nostra economia possono essere in grado di far ripartire una letale epidemia.
Come sanare questo conflitto apparentemente irrisolvibile? Probabilmente, come sempre nei casi di conflitto fra interessi, possiamo cercare innanzitutto un terreno comune – un interesse, cioè, la cui tutela coincide in ambito sia economico che sanitario. Questo interesse è identificabile nella salute della forza lavoro, indispensabile per alimentare la produzione, e riaccendere il motore della nostra economia. Per capirlo, mettiamo da parte i morti, le considerazioni economiche e i costi sociali dell’epidemia di coronavirus. Concentriamoci invece sulla malattia sintomatica, cioè su quella condizione più o meno debilitante che affligge circa un quinto degli infetti da Sars-CoV-2. Per iniziare il nostro discorso, consideriamo l’influenza. Nel 2007, Inps e Influnet calcolarono in 32 milioni le giornate di lavoro perse a causa di questa patologia virale, per un costo (non attualizzato) di quasi 2 miliardi di euro a carico dei datori di lavoro (cui vanno aggiunti i costi sostenuti da Inps, famiglie, Ssn). (segue a pagina due)
Ora, consideriamo che, in quel quinto di popolazione in cui si manifestano sintomi Covid, il coronavirus perdura per svariate settimane (con sintomi mediamente per dieci-quattordici giorni, ma vi sono casi anche di 55 giorni). Quanto costerebbe quindi alle imprese e ai datori di lavoro un’epidemia di Covid in tutta la nazione in termini di giornate lavorative perse, anche considerando che essa si manifesterebbe in zone differenti nel paese a tempi diversi, potendo quindi durare qualche mese? Certamente più miliardi di euro di quanto costi un’influenza. Anche senza considerare l’immoralità di condannare gli anziani a morire di coronavirus (insieme agli operatori sanitari e a tutti quelli che troveranno gli ospedali pieni), di fronte a queste banali considerazioni emerge che la salute del cittadino/lavoratore è il bene da tutelare, anche per motivi economici e anche da parte delle imprese e della finanza.
A questo punto, dovrebbe essere chiaro che l’investimento in dotazioni individuali di sicurezza, distanziamento, sorveglianza epidemiologica, tracciamento, isolamento e medicina del territorio, se come pare è in grado di ridurre l’epidemia al manifestarsi e allo spegnersi di tanti piccoli focolai, è certamente vantaggioso, rispetto al non fare nulla, anche in termini di euro risparmiati e di finanza salvata. Con un guadagno aggiuntivo: essere pronti all’arrivo della prossima pandemia, che potrebbe essere causata da questo o da altri patogeni, senza farci cogliere di nuovo impreparati.
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