(foto LaPresse)

Cattivi scienziati

Litigare non è un virus

Enrico Bucci

Una scienza che dibatte e che litiga è sintomo di una scienza in salute che si preoccupa del futuro

Per una serie di comprensibili ragioni, sia il pubblico che il decisore politico si attendono che la comunità scientifica rappresenti una monolitica entità, in grado di esprimere con chiarezza assoluta – ma soprattutto senza sfumature fra gli scienziati – posizioni di assoluta certezza, o quanto meno posizioni universalmente concordi nell’indicare quale sia la probabilità di accadimenti di certi eventi, date le condizioni in cui ci troviamo o dati gli interventi che intendiamo attuare.

 

Quando il pubblico assiste alla confusione in cui nasce la conoscenza scientifica, ai dibattiti anche animosi, alle accuse reciproche di ignoranza e di incompetenza, la reazione che consegue immediata è la perdita di fiducia nella scienza e nei suoi esponenti, ed anche una certa mancanza di speranza nella possibilità che si arrivi ad una conoscenza consolidata.

 

Eppure, dovrebbe essere ben chiaro a tutti che il miglior segno di una comunità scientifica viva e vegeta è proprio il crogiuolo di idee anche contrapposte, che sono tanto più variamente declinate e strepitate tanto più ci si trovi in una situazione in cui mancano ancora molti dati – come è quella in cui ci troviamo, dal momento in cui abbiamo fatto conoscenza con un nuovissimo patogeno, il virus che causa COVID-19. Se non avessimo varietà di idee, non avrebbe modo di operare il fondamentale processo di scriminatura che tramite il metodo scientifico, dati e analisi razionale porta a quelle certezze provvisorie ma più affidabili di ogni altra forma di conoscenza.

 

Lasciate che gli scienziati dibattano, anche animosamente; magari non in TV – su questo posso essere d’accordo – ma certamente in tutte le forme che liberamente ritengono, perché tutti quei bravi ricercatori che oggi sostengono con forza ipotesi che dovessero risultare false saranno costretti dai dati e dal metodo dei colleghi a recedere, quando la loro posizione sarà indifendibile.

 

Queste sono le regole del gioco, che dettano fra l’altro dei tempi non comprimibili o certi, per la dannazione dei manager; né vi è progresso scientifico che parta fin da subito da certezze monolitiche. E’ vitale invece che i ricercatori abbiano il tempo ed il modo di far l’avvocato del diavolo contro le teorie altrui (visto che è difficilissimo farlo con le proprie, per quanto ci si tenti in buona fede), e ciò non è sintomo di confusione, ma di buona salute della comunità scientifica.

 

Assodato che questo è il modo in cui la scienza fronteggia nuovi fenomeni – disordine creativo e poi selezione delle migliore idee sulla base dei dati – il pubblico dovrebbe comprendere che è in mala fede chi, profittando di questo naturalissimo fenomeno, lo rende arma utile a screditare i ricercatori, così da poter evitare di tener conto delle indicazioni su cui invece la comunità scientifica è concorde (come per esempio ciò che va fatto prima della riapertura). Chi cioè produce ed accentua la narrazione di una comunità scientifica in perenne ed inconcludente dibattito, o non in grado di dare risposte con il grado di certezza assoluta infantilmente preteso, lo fa solo per poter giustificare l’assunzione di decisioni sulla base di interessi di parte, invece che di scelte razionali.

 

Sono da temere, quindi, quelli che additano lo scandalo di una comunità scientifica i cui esponenti commettono errori, cambiano idea o sono contrapposti fra loro: costoro, fornendo un modello di scienza più simile alla rivelazione di verità assolute che alla realtà, provvedono al decisore politico un alibi per ignorare anche quelle indicazioni su cui, invece, il consenso è ormai raggiunto.

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