Il presidente americano Donald Trump e il capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases americano, Anthony Fauci (LaPresse)

Dr Fauci e Mr Trump

Stefano Cingolani

Come governare i governanti. La gestione dell’epidemia in America è tutta nello scontro tra il Potus e lo scienziato

“Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”,

Luigi Einaudi, “Prediche inutili”, 1955

 


 

La guerra è una faccenda troppo seria per affidarla ai generali. Potremmo applicare l’aforisma di Georges Clemenceau (primo ministro francese dal 1917 al 1920) anche a questo scontro mortale per battere un nemico sconosciuto, un microscopico virus capace di produrre una macro catastrofe, a questo conflitto nel quale i generali non indossano l’elmetto, ma un camice bianco? In apparenza mai come oggi il rapporto tra chi sa e chi agisce, tra competenti e potenti, tra scienza e politica, è stato tanto stretto. In verità, le strade si divaricano di nuovo, a riprova che la storia non insegna mai abbastanza. A Washington il comandante in capo è il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, il generale che guida la battaglia si chiama Anthony Fauci e la sua aiutante di campo è Deborah Birx. Gli americani, incollati alla televisione, hanno familiarizzato sia con il volto affilato, il fisico asciutto e la battuta tagliente dello scienziato, sia con i foulard di seta colorata della dottoressa già colonnello dell’esercito. Fauci, direttore dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive, è un veterano del fronte aperto contro un virus tenuto sotto controllo, ma non sconfitto, quello dell’Hiv che provoca l’Aids. Con lui andò a lavorare Debbie Birx nei primi anni Ottanta del secolo scorso, quando ancora era sotto le armi. Oggi è una delle maggiori esperte di quella lotta senza tregua e guida le attività del governo contro l’Aids. Il dottor Fauci e la dottoressa Birx sono tornati fianco a fianco, anche se li divide il rapporto con Trump, tanto burrascoso per l’uno quanto rispettoso per l’altra. 

 

 

Fauci è un veterano del fronte aperto contro un virus tenuto sotto controllo, ma non sconfitto, quello dell’Hiv. Lavora con Debbie Birx

Vengono in mente altre guerre e altri generali diventati popolari sui teleschermi. Chi era giovane negli anni Novanta ricorda Norman Schwarzkopf, protagonista dell’operazione Desert Storm per liberare il Kuwait occupato dall’Iraq. Nel 1991, sfondate le linee, voleva arrivare a Baghdad, e il presidente George H. W. Bush lo bloccò. Se Saddam Hussein fosse caduto allora, quando era l’invasore inviso alla maggior parte del mondo arabo, mentre l’Unione Sovietica si scioglieva come neve al sole, molte cose sarebbero cambiate in medio oriente e altrove. Dodici anni dopo, Colin Powell, diventato capo di stato maggiore, pianificò di invadere l’Iraq con tutte le forze disponibili, una offensiva massiccia e una pronta ritirata (una strategia definita “dottrina Powell”); niente guerra leggera, asimmetrica o astruserie del genere come invece volevano Dick Cheney e Donald Rumsfeld. Il presidente, George W. Bush, si fece convincere dai cattivi maestri, e quella che poteva essere una vittoria netta e risolutiva si è trasformata in un pantano. Allora gli adepti dell’arte della guerra vennero sopraffatti dai politici, ciascuno con i propri disegni e le proprie ragioni, ma nessuno in grado di capire come si usano in modo appropriato le armi estreme. Dunque, Clemenceau aveva torto. Eppure qualcosa del genere sta accadendo oggi con gli scienziati, addestrati per una guerra atipica, un conflitto mondiale combattuto su tanti fronti nazionali. E questo, forse, è il primo errore madornale commesso. Ma non arriviamo troppo presto a conclusioni generali, guardiamo piuttosto a quel che sta accadendo attorno a noi.

 

In quasi tutti i paesi, i governi hanno chiesto aiuto agli scienziati. E quasi ovunque la relazione si è rivelata ambigua e difficile. Donald Trump, fino all’estremo scettico sul coronavirus (“è un’influenza” è stato a lungo il suo ritornello), ha messo la lotta al Covid-19 nelle mani espertissime di un luminare della immunologia come Anthony Fauci, 79 anni, italoamericano di Brooklyn, scienziato e funzionario pubblico. E’ lui il Colin Powell, tanto per assecondare la nostra metafora bellica. Suo aiutante di campo, Deborah “Debbie” Birx, distaccata dal dipartimento di Stato dove ha lo status di ambasciatrice, medico militare, sotto le armi dal 1980 al 1994 fino a raggiungere il grado di colonnello, grande esperta, anche sul campo, di virus ed epidemie. Nel 2014 è stato Barack Obama a nominarla alla testa del piano di emergenza per la lotta all’Aids da lui voluto. Ciò poteva renderla sospetta a Donald Trump, ma per lei ha garantito il vicepresidente Mike Pence che l’ha introdotta alla Casa Bianca per coordinare la task force messa in piedi allo scopo di combattere il Covid-19.

 

Anche in Italia, ora che appaiono barlumi di speranza e serve una road map per la fase due, sono tornati gli scontri tra politica e scienziati

Fauci-Birx, il generale e il colonnello, una coppia solida, esperta, affiatata, eppure ha dovuto sudare sette camicie prima di convincere il presidente che la faccenda si stava facendo davvero seria. Tanto da non evitare gli errori iniziali (messaggi pubblici contraddittori, ritardi persistenti nei test e nelle forniture sanitarie necessarie), per colpa dei quali gli Stati Uniti sono precipitati nell’inferno della pandemia e battono giorno dopo giorno ogni record di vittime tra infetti, malati e morti. Ancor oggi il team di scienziati si trova in contrasto con il primo cerchio dei consiglieri politici ed economici che hanno messo in discussione l’accuratezza dei loro modelli, fino al punto da negare l’evidenza, lamentandosi in privato della loro enorme influenza.

 

Il gioco del potere non si ferma davanti alla morte. E l’entourage trumpiano è perennemente diviso tra i lealisti e gli esperti sui quali viene gettata l’ombra del sospetto. L’ultimo caso riguarda il rimedio miracoloso, l’idrossiclorochina utilizzata, tra le altre cose, contro la malaria. Trump ci crede in base a quelli che egli stesso chiama “aneddoti”. Fauci è contrario: non si fida, non ci sono risultati clinici validi. In realtà, anche qui è in atto un braccio di ferro per ottenere le grazie del sovrano, perché a insufflare il presidente è il cerchio magico formato da fedelissimi come Rudy Giuliani, Larry Ellison e Laura Ingraham, tutte personalità di valore, ma digiuni di immunologia: il primo è un avvocato ed ex magistrato, campione della lotta alla mafia; il secondo, fondatore di Oracle è un guru high tech; la terza non sa nulla di preciso e di tutto un po’, è una conduttrice di Fox News la rete televisiva conservatrice, e proprio lei ha più degli altri l’orecchio di Trump. La settimana scorsa, racconta il Washington Post, ha accompagnato alla Casa Bianca due medici ospiti abituali della sua rubrica in tv, ferventi adoratori della colorochina.

 

 

Forse hanno ragione, però Fauci non si piega e non esita a contraddire Trump anche in pubblico, durante i briefing per la stampa. Lo scienziato riprende il presidente il quale trattiene a stento al sua irritazione. Il primo dice che il vaccino è ancora lontano e la situazione non può che peggiorare, il secondo sostiene che ci siamo quasi e a Pasqua sarà tutto finito. Il battibecco tra i due è diventato una situation comedy televisiva, anche se bisogna dire che Trump, impaurito e incerto, è pronto a cambiare rapidamente idea, più presto del solito. “Abbiamo discusso vigorosamente con il presidente di non ritirare queste linee guida dopo 15 giorni, ma di estenderle e ascoltarle”, ha raccontato Fauci alla Galileus Web: “Il dottor Birx e io siamo entrati insieme nell’ufficio ovale, ci siamo chinati sulla scrivania e abbiamo detto: ecco i dati, diamo un’occhiata. Il presidente li ha guardati, ha capito, e ha semplicemente scosso la testa replicando: ‘Credo che abbiamo da fare’”. Il vantaggio è che The Donald, sebbene detesti essere contraddetto (fin da quando era piccolo sostengono i suoi biografi), apprezza l’approccio diretto e chi gli tiene testa lealmente. Una volta ha ricordato l’abilità di Fauci come giocatore di basket, definendo lui e la Birx “grandi geni”, un po’ per celia un po’ per sincerità. La dottoressa colonnello ha un approccio meno frontale, forse perché, sostengono le malelingue, essendo di nomina politica può essere cacciata in ogni momento. In realtà, è proprio la sua formazione militare a spiegare un atteggiamenti ispirato a disciplina e obbedienza alla catena di comando, diverso da quello scanzonato e irriverente del proprio mentore.

 

Anche in Italia, ora che appaiono barlumi di speranza e serve una road map per la fase due, sono tornati gli scontri tra politica e scienziati

Il tono è certamente meno terra terra alla corte di sua maestà britannica, ma le tensioni tra politica e scienza non sono minori, anzi sono aggravate dal conflitto interno allo stesso mondo della medicina. All’ombra della “immunità di gregge” che aveva conquistato il primo ministro Boris Johnson desideroso di mostrarsi ancora una volta degno del suo mito Winston Churchill, si svolge lo scontro tra gli scienziati di Oxford e quelli londinesi dell’Imperial College. I primi, guidati dalla professoressa Sunetra Gupta, sostengono, cifre alla mano, che la mortalità del Covid-19 è inferiore rispetto alle stime ufficiali e il visus, il Sars-Cov-2, è meno aggressivo di quel che sembra. Gli altri, guidati da Roy Anderson e sostenuti dal suo protetto Neil Ferguson, hanno rigettato lo studio oxoniense considerandolo “fondamentalmente speculativo”. E mentre gli esperti si schiaffeggiavano a suon di rapporti e contro-rapporti, il governo esitava, gli ospedali si riempivano di malati, la pandemia colpiva a ritmo accelerato, come in Italia, come in Spagna, forse anche di più. C’è chi insinua che dietro lo scontro tra Oxford e l’Imperial College ci siano antiche rivalità: il trait-d’union sarebbe Anderson il quale vent’anni fa, quando era a Oxford, fece pesanti apprezzamenti sull’allora giovane collega Sunetra Gupta, arrivando a sostenere che aveva ottenuto la cattedra perché andava a letto con il capo dipartimento. Ne seguì uno scandalo, Anderson ci rimise il posto e si trasferì a Londra. Non sappiamo se abbia perdonato, certo non ha dimenticato. In ogni caso, alla fine, anche BoJo si è convinto a seguire l’Imperial College, pagando personalmente il prezzo della hybris. La politica al primo posto, ma quando la politica non è in grado di conoscere la realtà, quando in politica prevale l’incompetenza e quando vince la presunzione? Che fare allora, una volta delegittimato chi è in grado di sapere? “Conoscere per deliberare”, il monito platonico di Luigi Einaudi risuona in questi giorni, ovunque, e naturalmente anche in Italia.

 

Una volta scoppiata la crisi del 2008, la regina Elisabetta con il candore che solo una sovrana può permettersi, chiese ai massimi esponenti della London School of Economics perché mai non avessero capito quel che stava accadendo. Ricevette una risposta compita e contrita, piena di spiegazioni razionali e di una conclusione anch’essa candida, cioè sincera: non abbiamo capito, ci siamo sbagliati. L’episodio torna attuale ora che si scatenano le polemiche sul collasso dei sistemi sanitari e proprio nei loro punti più alti: Milano, Londra, New York. Ci vorrebbe qualcuno altrettanto sincero da porre la stessa domanda e qualcun altro così onesto da rispondere “ci siamo sbagliati”. Invece è tutto un rimpallo di responsabilità: la regione Lombardia, alla quale spetta la gestione della sanità, se la prende con Palazzo Chigi il quale replica elencando giorno dopo giorno le incongruenze e i ritardi di Milano. Intanto, il Veneto gonfia il petto arrogandosi un modello più efficace. Bella forza, replicano i lombardi, da voi si è abbattuto un temporale, su di noi un uragano. E sì che anche il governo giallorosso si è affidato a un quartetto di esperti: Walter Ricciardi, consulente numero uno, proviene dall’Università cattolica e dal policlinico Gemelli, attore per diletto, politicamente vicino a Luca Cordero di Montezemolo ai tempi di Italia Futura; accanto a lui Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità; Angelo Borrelli, un funzionario pubblico, capo della Protezione civile, è il controllore supremo; Domenico Arcuri, sceso in campo per ultimo, fa il commissario straordinario. Insomma, due medici e due amministratori. Nemmeno loro si trovano sempre d’accordo, le dichiarazioni televisive sono talvolta contraddittorie, i messaggi confusi, ma bisogna capire che nessuno possiede la ricetta, finché non ci sarà (se ci sarà) il vaccino o finché non verrà trovato un cocktail di farmaci efficace, come per l’Aids.

 

Fauci-Birx, il generale e il colonnello, hanno dovuto sudare per convincere il presidente che la faccenda si stava facendo seria

L’idea di mettersi nelle mani di personalità super partes è senza dubbio corretta. Tuttavia questo continuo ripetere “lo dicono gli scienziati, ci affidiamo alle loro decisioni” può sembrare un modo per diluire le responsabilità ultime che sono di chi decide sullo stato d’eccezione. Ora che appaiono barlumi di speranza ed è arrivato il momento di scegliere se e quando riaprire le gabbie in cui siamo rinchiusi da un mese, politica e scienza tornano a dividersi. Prima è cominciata la cacofonia. Poi il dissenso. Ricciardi è netto: “Sconsiglio l’apertura di fabbriche e scuole”. Conte replica: “Non siamo in Cina, la gente non può stare troppo a lungo in casa”. Gli industriali premono: “L’economia deve ripartire”. I sindacati frenano: “La salute innanzitutto”. Gli unici a tacere, sconfitti dalla falce nera del Covid-19 sono i no vax. Ma non per molto, siamo pronti a scommetterlo.

 

La gestione del dopo, la riapertura progressiva, è ancora più difficile. Passare dalla strategia della soppressione a quella del contenimento flessibile è rischioso (a Singapore siamo alla terza ondata, a Hong Kong alla seconda, in Cina il virus si sposta da un distretto all’altro) e soprattutto estremamente complesso, richiede controlli a tappeto e la mobilitazione di una struttura sanitaria oggi sotto stress e in pieno collasso nelle regioni più colpite, dalla Lombardia all’Emilia. Affinché riesca occorre una collaborazione stretta tra tutte le istituzioni e la politica, ci vuole soprattutto fiducia negli amministratori e negli esperti. Torniamo così a Clemenceau. Si potrebbe replicare che la pace è troppo seria per lasciarla ai governi, del resto il vecchio radicale francese fu tra i protagonisti del rovinoso trattato di Versailles che nel 1919 emarginò l’Italia vincitrice e aprì la strada a Mussolini, ma soprattutto umiliò la Germania, innescando quel sentimento di rivalsa cavalcato dai nazionalisti e da Hitler. Allora, attenti al primato della politica, che ha le sue ragioni anche se la ragione talvolta non riesce a comprenderle.

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