(foto LaPresse)

Milano Fashion Week: invitati o digitali

Fabiana Giacomotti

Altro che più democrazia, alle sfilate tornano i vip in poltrona. Per gli altri maxischermi e profumi

"Ma sarà digitale davvero per tutti, o no?”. Un dubbio atroce si è insinuato nella mente e nel cuore di giornalisti, buyer e signore use alla frequentazione delle sfilate pre Covid, che per gli standard attuali si definirebbero grandi assembramenti, dopo aver scoperto che qualcuna delle griffe più importanti trasmetterà sì in digitale live la sfilata o la presentazione alla prossima Milano Digital Fashion Week o degli appuntamenti romani di mezza estate, ma che un ridottissimo numero di ospiti in presenza è stato previsto e che, oh dolore, gli inviti sono non solo già stati diramati, ma tutti accettati e, per via delle regole di sicurezza da rispettare, impossibili da estendere e aumentare ulteriormente. Inutile pietire; meglio dirsi o darsi già al mare in smart working. Gli intimi, i clienti benestanti, i critici di valevole firma, insomma per usare un termine desueto e sempre in auge, i vip, stanno tutti per rientrare a Milano e sedersi, finalmente su comode sedie ben distanziate e non pigiati sulle scomode panche pre Covid, alle sfilate organizzate in magnifica presenza per pochi e distanza digitale per gli altri. Molta attesa per Etro, marchio della Milano colta e dei boho di tutto il mondo, qualche trepidazione per la 24 ore di binge watching di Gucci in “ultimo atto” di pre-collezione, un progetto così esteso da sembrare in presenza. Fibrillazione per Valentino a Cinecittà, verso fine mese, che unirà arte e moda in un progetto con Nick Knight platealmente ispirato all’estetica coreutica di Loie Fuller.

 

Nonostante la pandemia, i venti di egualitarismo, il culto presunto delle diversità, tira un’aria di Ancien Régime sulle fashion week mondiali decimate dal Covid, una rimembranza dei tempi, non si sa quanto felici, in cui i cineoperatori della Pathé riprendevano i selezionatissimi ospiti di Paul Poiret seduti sui divani del suo hotel particulier mentre applaudivano le indossatrici con le aigrettes in testa. Così è andata almeno fino alla metà degli anni Cinquanta e al progressivo avvento della cosiddetta moda “boutique” e del pret-à-porter: abbigliamento destinato a tanti, e che dunque tantissimi dovevano vedere e diffondere a dovere. Qualcuno ricorda ancora le sfilate di Giorgio Armani nel teatrino di via Borgonuovo, forse centocinquanta persone, ed era ancora la fine degli Anni Novanta: come queste si siano trasformate in due spettacoli in rapida successione nel grande teatro di via Bergognone, e tutte le altre sfilate in eventi e show modello concerto degli U2 con tanto di servizio d’ordine e richiesta di documento all’ingresso, attiene alla progressiva trasformazione della moda in fenomeno culturale pop e al suo apparentamento commerciale al mass market. Abilmente ingioiellato a parere esclusivo, ma sempre industria e sempre commercio in grandi numeri. Per tutti i mesi del lockdown si sono spesi fiumi di parole sull’evoluzione democratica che la moda avrebbe subito, sulla progressiva scomparsa delle sfilate, sul declino del fast fashion. Qualcuno, come il presidente di Confindustria Moda Claudio Marenzi, suggeriva anche al Foglio di non trarre conclusioni affrettate, e aveva ragione. L’unica cosa certa è il declino del fast fashion, dettato da cause etico-ambientaliste pre Covid. Il resto sta tornando uguale a sempre, anzi come il sempre del tempo che fu e si spera anche presto: in questi giorni decine di pr sono costrette a rincorrere via mail e sms i giornalisti dimentichi e riottosi rispetto al “prossimo inizio” della sfilata in streaming che “comunque si potrà anche rivedere”: l’accavallarsi di eventi online ha reso evidente a tutti che la scansione fisico-temporale delle collezioni non aveva solo un senso ma, come dice Cinzia Malvini de La7, “dava valore a quanto ci si preparava per andare a vedere”. In compenso, la pandemia è stata una scusa fantastica per evitare costi di allestimento inutili e generalmente mostruosi, e investire piuttosto su un bravo regista e una piattaforma di qualità, come ha fatto Camera Nazionale della Moda stringendo un accordo di partnership broadcasting delle sfilate in quasi dieci maxipostazioni in città con Urban Vision, media company specializzata nei restauri sponsorizzati e nella valorizzazione del patrimonio culturale, che in quindici anni di attività ha riportato alla bellezza originaria 250 edifici fra chiese, monumenti e palazzi storici raccogliendo fondi per 130 milioni di euro: “Oggi abbiamo la possibilità di creare format sempre più innovativi sperimentando nuovi percorsi di comunicazione capaci di integrare tecnologia, creatività, sostenibilità, ambiente digitale e territorio” , dice Gianluca De Marchi, co-founder e ceo della società, che ha “approfittato” dei mesi del lockdown e della campagna di raccolta fondi sviluppata a favore del dipartimento della Protezione civile per sperimentare nuovi format di “interazione in cui la città si trasforma in canovaccio su cui appuntare pensieri, condividere immagini e veicolare sensazioni”. In sintesi e in concreto: artwall, erogatori di profumi a base di oli essenziali “pensati ad hoc per favorire il ripopolamento delle città” (e poi non veniteci più a dire che Milano puzza di smog), tecnologie sofisticate che favoriscono “l’esperienzialità”, mantra del momento, declinato su superfici a parete fino a 220 metri quadrati, come nell’artwall “Ready to go” sviluppato in collaborazione con la rivista Toiletpaper di Maurizio Cattelan in viale Bianca Maria.