(foto LaPresse)

C'è bisogno di riformismo ambrosiano, ma s'è un po' perso

Daniele Bonecchi

Sala è in cerca di nuovo socialismo. Guardi a una storia lunga e virtuosa. Dicono Veca e Borghini

Beppe Sala prova a suonare la sveglia a una sinistra fané, senza idee, per molti “al carro del M5s”. “E’ l’ora del cambiamento: serve un nuovo socialismo”, ha detto al Corriere, “la sinistra deve recuperare un’idea politica di società”. Ma a volte è necessario voltarsi indietro per capire. La storia di Milano parla anche attraverso i suoi sindaci, da Antonio Greppi (1945), che non si limitò alla ricostruzione materiale, ma pensò anche a quella morale e culturale, a Pietro Bucalossi, via via fino agli anni di Aldo Aniasi e Carlo Tognoli, il sindaco più amato dai milanesi, con la grande crescita di Milano fino agli anni di piombo. Tutti (o quasi) con un comune denominatore: credere nella loro città e lavorare nel solco del riformismo ambrosiano. Per Piero Borghini, sindaco della transizione tra la Prima e la Seconda Repubblica, nella situazione così difficile di oggi “Milano deve seguire come sempre la sua stella, la capacità unica in Italia di cambiare, anche radicalmente quando necessario. Lo ha fatto, dal Dopoguerra a oggi, almeno tre volte, basta pensare alla ricostruzione, alla rivoluzione post industriale che l’ha portata a diventare la capitale del terziario avanzato, poi gli ultimi 20 anni che l’anno trasformata nel fulcro dell’economia e della conoscenza. Milano non può stare ferma, perché il cambiamento è nel suo Dna, ma deve prendere atto della sua dimensione metropolitana, le scelte devono essere calibrate: Milano non è solo l’Area C, deve potenziare l’economia della conoscenza, le infrastrutture dell’area metropolitana. Anche nel sistema sanitario occorre imparare dai limiti e dagli errori commessi”.

 

Spiega Salvatore Veca al Foglio: “Difficile negare che possa esservi uno spazio per la cultura riformista di rito ambrosiano”. Veca insegna Filosofia politica all’Istituto universitario di Studi superiori di Pavia, è presidente onorario della Fondazione Feltrinelli, è stato il direttore scientifico di Laboratorio Expo e responsabile della redazione della Carta di Milano. “Credo che sia il meglio della tradizione politica milanese. Può darsi che mi sbagli, e questo vorrebbe dire che viene meno il senso della politica per come l’abbiamo ereditato per tanti decenni. Pensiamo alla Milano e al Partito socialista, con le espressioni della società civile che sono decisive nella realtà post unitaria che ne fa una capitale ‘altra’ rispetto a Roma. Milano che s’inventa la sua piccola Expo (la Fiera, ndr), il Politecnico, la Bocconi. Milano dove le forze politiche – parlo in particolare delle forze della sinistra – tutelano gli interessi dei lavoratori. Con una borghesia illuminata ed élite politiche legate al popolo, capaci di avere come scopo il miglioramento delle condizioni di vita e di dignità: il pane e le rose”.

 

Ma cosa fa la differenza, rispetto a questa stagione dove parlare di riformismo a qualcuno pare un insulto? “Dopo il fascismo, il protagonista principale è il partito politico. Quello che trovo profondamente cambiato, oggi, è proprio il partito politico. Oggi la società è completamente cambiata. Con la congiunzione dei processi di globalizzazione e di forte interdipendenza planetaria. ‘Una sola umanità un solo pianeta’ è stato uno slogan bellissimo dei sogni dei ragazzi, ma ha favorito la diffusione del coronavirus…”. A Milano la società civile ha sempre giocato un ruolo decisivo nel modello ambrosiano, in cui la migliore sinistra e il migliore centrodestra si incontrano. Oggi? “Indicativo l’insediamento delle giunte Albertini e Moratti. Mentre Pisapia ha una storia a sé – personaggio di una politica minoritaria con un’attenzione straordinaria alla dimensione dei diritti – ed è riuscito a costruire un enorme consenso basato sui giovani, il periodo cosiddetto arancione. Ma prendiamo Albertini, arrivato dal mondo Assolombarda, ha messo le basi dello skyline della Milano di oggi. Moratti, esponente del mondo imprenditoriale, con una esperienza in Rai, è lei a lanciare l’idea Expo, poi realizzato grazie ai governi Prodi e D’Alema. Sala è l’espressione diretta del mondo dell’impresa, impara la politica assumendo una responsabilità straordinaria da commissario Expo e poi da sindaco”. Tutto questo sottolinea però la crisi dei partiti politici, in difficoltà a esprimere dei veri leader, capaci di promettere nel senso felice (mantenibile) della parola. “C’è maggior fiducia verso gli esponenti della società civile – insiste Veca – piuttosto che verso la politica. “Oggi il partito diventa l’insieme delle persone che seguono il leader e sono al suo servizio”. Veca non è ottimista: “Sul breve periodo non credo sia reversibile questo processo, non escludo che sul lungo si possano ricostruire certi legami, che portino a un ceto politico più decente di quello attuale. Può darsi che si metta nuovamente in moto la formazione nei partiti, ma questo è il campo delle profezie”.

 

Oggi siamo alle prese con la necessità di restituire alla città, dopo i mesi della pandemia (che non è sparita) la propria vitalità. Quale può essere la direzione di marcia? “La Milano post 2015, fino al gennaio 2020 è una città che sulla spinta di una serie di processi che hanno portato all’Expo – come una eredità delle ultime giunte che hanno preceduto quella di Sala – è una Milano che ne azzecca una dopo l’altra. Non dimentichiamoci che il riformismo ambrosiano è tanto politico quanto sociale, “è la libera arte di associarsi” (Tocqueville). Basta pensare quanto pesi oggi il sistema universitario milanese – enormi risorse cognitive e di ricerca – che tendono a fare sistema: una cosa straordinaria. L’idea del fare rete, sistema, viene dalla società civile, ha bisogno che la politica si limiti a regolare il traffico. La politica avrebbe lo spazio per fare le cose di lungo termine perché su quelle di breve la società organizzata – se non gli metti i bastoni tra le ruote – marcia alla grande. Il Covid è un gran casino che vien fuori dalla interdipendenza.

 

E oltre a tanti morti, è stato un enorme rilevatore delle diseguaglianze: se faccio le lezioni web perché la scuola è inaccessibile, poi c’è il ragazzo che non ha il computer. C’è chi vive con sette persone in un piccolo alloggio e chi ha una stanza propria per studiare, chi è assistito da un genitore letterato e chi no. Si chiama povertà educativa e interessa molto anche Milano. Di fronte a questa situazione – col Covid che ha lavorato alla grande nelle diversità abitative, l’amministrazione Sala ha avviato un lavoro che è stato paralizzato dalla fine di gennaio”. Da settembre i progetti riprenderanno, con l’incognita di una crisi economica e occupazionale che potrebbe frenare nuovamente il piano periferie. “Il rischio è che si riproduca la logica di chi ha tutto contro chi non ha niente, quando trovi un lavoro diventi uno schiavo, ne vediamo ogni giorno nelle nostre strade. Una umanità umiliata. Dobbiamo reagire e mettere in campo idee su città abitabili da esseri umani, che hanno imparato con questa crisi sanitaria, di essere vulnerabili”, conclude Veca. Milano ha nel suo passato gli anticorpi riformisti per progettare il suo futuro.