(foto LaPresse)

La settimana pandemica

Nadia Terranova

Ora che abbiamo esaurito tutte le battute sulla morte e sul contagio, che cosa ci resta del virus? Se non le mascherine, almeno la compassione. Diario di una difficile convivenza con la paura

L’unica cosa certa, al termine della prima settimana della pandemia in Italia, è che abbiamo finito le battute. La battuta di quelli che si autocertificano asociali ce l’abbiamo (tutte le variazioni di: ah, non mi serviva il virus per non uscire di casa e tenere a distanza le persone); la battuta di quelli che si autocertificano puliti perché tutti puzzano intorno a loro e sui mezzi pubblici ce l’abbiamo pure (variazioni di: con il virus finalmente vi lavate!); la battuta di quelli che si vantano di non avere paura di niente e la battuta di quelli che si vantano di avere paura di tutto le avevamo già quando il coronavirus non era ancora arrivato in Italia; le battute su come si fanno i giornali e le battute su come non si fanno i giornali (ne lascio qui una mia per non farci mancare niente: quando leggerete questo articolo non solo non esisteranno più le edicole, fenomeno per il quale possiamo incolpare tutto tranne l’epidemia, è che proprio non esisterà il mondo, è chiaro che sto scrivendo per l’eternità); le battute sugli scaffali svuotati di pasta tranne le pennette lisce che non vuole nessuno, le battute sui leghisti cui per contrappasso è toccata la quarantena come gli immigrati, le battute su quanto gusto c’è a mangiare ravioloni cinesi da soli al ristorante, le battute sull’incavo del gomito dove bisogna starnutire, le battute di chi sfida il fato e i dirigenti scolastici mandando sette figli a scuola col moccio e quelle di chi si è rinchiuso nella casa di montagna senza rispondere al telefono nemmeno all’amante. È solo la prima settimana di letteratura italiana del contagio, forse siamo già tutti morti ma il battutismo se la passa benissimo. 


La prima grande differenza dell’epidemia al tempo di internet è che quegli altri avevano Tucidide e Boccaccio, noi i battutisti


 

Posto che l’umorismo è sacro e non finirò mai di citare Romain Gary, “l’ironia è una dichiarazione di dignità, è l’affermazione della superiorità dell’essere umano sulle cose che gli capitano”, fortunatamente per lui, Gary non aveva i social e nei bistrot francesi non avrà avuto contezza di quante volte lo stesso motteggio può essere spacciato per originale, la viralità è un dramma tutto contemporaneo (confesso: la battuta sul doppio senso di quella parola, viralità, in tempo di virus era lì che aleggiava e l’ho schivata appena; non ho paura dello spirito di patata in sé, ho paura dello spirito di patata in me). Dunque, rispetto alla peste del Trecento, alla peste del Seicento, alla peste di Atene, al colera, alla spagnola, all’Aids degli anni Ottanta, mi pare evidente che al di là dei numeri, della geografia e delle approssimazioni nel combinare a casaccio malattie e fenomeni, la prima grande differenza della pandemia al tempo di internet è che quegli altri avevano Tucidide, Boccaccio, Bufalino, Tondelli, a noi toccano il battutaro sovranista e quello antifah, quello con la bandierina nel nick name e quello con l’account di coppia. Comincio a credere sia vera la storia del flagello divino, della punizione suprema: che abbiamo fatto di male? E dire che quando Guccini stigmatizzava le “battute argute di architetti postmoderni” i social non esistevano neppure, ma quanta verità. 


Ho fifa per gli anziani, per i veneti, per i lombardi, per i cinesi, nell’ordine che preferite e con tutti gli incroci di categorie possibili


 

Intanto, anche fuori dall’internet non ce la passiamo granché bene. La scorsa domenica tornavo a Roma con un treno ad alta velocità in una carrozza silenzio dove mi accingevo a rileggere Camus (un testo a caso, La peste) quando una squadra di calcio maschile, di rientro da una trasferta, ha portato all’improvviso nel vagone qualche centinaio di chili di testosterone e, inspiegabilmente, nessun flacone di amuchina. Ho preso il libro, il trolley e la mia pazienza e sono fuggita tre carrozze più in là, sotto lo sguardo complice della capotreno che tutto sa e comprende: certo, meglio allontanarsi da quel sudore malato, da quell’umanità infetta. Peccato che il problema fosse un altro, forse troveranno il vaccino per il coronavirus ma mai la logica di chi ha cliccato “acquista trenta biglietti per maschi con un picco ormonale proprio nell’area silenzio”. Io quell’acquirente me lo immagino fissare soddisfatto la scelta e digitare il pin con convinzione perversa; o forse no, è probabile che non si sia neppure accorto di cosa stava comprando, del resto se fai notare al personale ferroviario che se paghi un certo servizio ti piacerebbe che fosse rispettato, quello ti guarda con aria bovina e ti lascia in pasto ai leoni, perché se poi ti azzardi pure a protestare con i diretti interessati, gli urlatori potrebbero legarti alla poltroncina con la sciarpa che dovrebbero usare per proteggere le vie respiratorie e lapidarti davanti a tutti (la risposta degli energumeni è stata: “e perché dovremmo stare zitti, e che siamo in chiesa?” – sono scappata, ma ridacchiando: lo spirito di patata in loro, miei simili, miei fratelli). Dunque, nella carrozza non-silenzio dove finalmente c’era silenzio, ho di nuovo tirato fuori Camus. Eravamo in tre: oltre me, c’era una donna che bisbigliava al telefonino con il bavero alzato, immagino per respirare il meno possibile (per qualche misteriosa ragione, morire di apnea doveva sembrarle più accettabile), con il risultato, per nulla sgradito, di ammortizzare il tono della voce producendo un apprezzabile autoisolamento. La terza persona era un ragazzo dai tratti asiatici che ascoltava musica con le cuffiette, è a lui che mi sono rivolta quando mi sono accorta che, tanto per cambiare, avevo dimenticato il caricabatterie chissà dove. Purtroppo, siccome non mi sentiva, ho dovuto toccargli la spalla per chiedere se magari poteva prestarmi il suo; quando è saltato in aria guardandomi con terrore l’ho subito rassicurato: come il mio accento poteva testimoniare, non ero salita a Codogno. Corollario al teorema Gary: non è solo per dire alla morte che non ci fa affatto paura (per nulla proprio, ce la stiamo soltanto facendo sotto) che ci improvvisiamo battutisti a casaccio e goffamente – è anche perché in tempo di pandemia, misure di sicurezza a parte, cos’altro dovremo fare se non leggere capolavori, dire cose stupide, trasgredire la dieta, fare un bagno al mare fuori stagione? Se stiamo per morire, tutto ci è concesso, e se per caso sopravviveremo magari ci ricorderemo che la vita è questa cosa qui: è quel tempo dove stiamo tutti sempre per morire. 


Cos’altro dovremo fare se non leggere capolavori, dire cose stupide, trasgredire la dieta, fare un bagno al mare fuori stagione?


 

Accadrà comunque, perciò tanto vale coltivare la clemenza, la gentilezza e la buona educazione – ecco perché, allontanandomi dalla carrozza infestata dagli sportivi chiassosi e maleducati, ho sibilato “li mortacci”, però sottovoce. L’ho ridetto anche alla capotreno che alle mie proteste replicava: suvvia, è una squadra di calcio. Quindi i calciatori non devono sottostare alle regole, non pagano le tasse, finirà che saranno pure autorizzati a non lavarsi le mani e ungerci tutti, signora mia! Questo ho detto, e poi piano, di nuovo: “li mortacci”. Se dobbiamo morire, tanto vale morire leggeri, senza nessun peso sullo stomaco, morire dopo aver detto a tutti la verità. Quindi farò delle telefonate a qualcuno a cui ho detto ti amo troppo piano, forse non mi ha sentito, e altre telefonate a qualcuno a cui l’ho detto a voce troppo alta, da ubriaca: era di sicuro tutto sbagliato e adesso bisogna che io ripristini la verità, se solo sapessi qual è, chi ho amato veramente e chi no? Cerco la risposta mentre conto fino a venti strofinandomi le mani fino a spellarle con il detersivo per piatti sotto l’acqua tiepida. Non lo faccio perché non si trova l’amuchina, anzi alla farmacia sotto casa sta in offerta, nell’internet dicono che la vendono a duecento euro ma sono abbastanza sicura sia una trappola per scatenare focolai indignati contro gli sciacalli. Il coronavirus ha già suscitato una decina di indignazioni diverse, purtroppo in questo non è stato molto originale, con l’indignazione eravamo già ben allenati di nostro. Comunque, io l’amuchina ce l’ho ma non mi garba l’odore, però sono pronta a cospargermene pur di dimostrare al mondo che in realtà tutto quello che sta succedendo mi preoccupa tantissimo, che ho una gran fifa per me, per le persone immunodepresse che conosco e anche per quelle che non conosco, per una mia amica ipocondriaca vera che sta vivendo molto male e alla quale impedirò di leggere queste mie sciocche righe, per mia madre che s’era rintanata prima di tutti in un luogo isolato, fino alla settimana scorsa faceva finta di aver voglia di starsene per i fatti suoi per non farsi dare della psicodrammatica e adesso ci guarda tutti col ghigno “ve l’avevo detto”. 


Se dobbiamo morire, tanto vale morire leggeri, senza nessun peso sullo stomaco, morire dopo aver detto a tutti la verità 


Lo vedo, quel ghigno, anche se ci parliamo solo per telefono. Dicevo, ho una gran fifa anche per lei. Ho fifa per gli anziani, per i veneti, per i lombardi, per i cinesi, nell’ordine che preferite e con tutti gli incroci di categorie possibili, perché dentro sono sempre quella bambina di undici anni che vuole un unico superpotere: quello di non far morire nessuno, nemmeno gli stronzi. Fuori, invece, sono una quarantenne che fa battute sbagliate e non si stizzisce troppo per quelle degli altri perché ha paura per tutti e una gran rabbia perché nessuno è un numero, in una settimana in cui si parla solo di numeri, e nessuna persona è solo una malattia, in una settimana in cui si parla solo di malattia. Così, in questo scomposto spettro di reazioni che va da leggere Storia della colonna infame a litigare con sconosciuti in rete, vedo più che altro persone alla ricerca del proprio esorcismo, messe di fronte a una scacchiera in cui ogni pedina si muove secondo una domanda e tutto il gioco prende la forma di un’inquisizione: chi hai frequentato negli ultimi mesi? Che viaggi hai fatto? A quante persone hai stretto la mano? Le tue abitudini igieniche sono abbastanza e davvero igieniche? Sei in grado di leggere tutte le disposizioni del ministero della salute senza distrarti? Di accedere alla rete schivando una massa di informazioni inutili e fuorvianti? Ma soprattutto, sei capace di stendere un paio di lunghissime ali di acciaio sulle persone a cui vuoi bene e proteggerle per sempre dalla malattia, dalla contaminazione, dalla loro paura e dalle loro fobie, dalla tua paura e dalle tue fobie? A creature tanto smarrite e ingenue come gli esseri umani non servono quelle dieci mascherine che avete comprato “perché non si sa mai”, serve solo tutta la compassione del mondo. Entra senza problemi in tasca o in borsetta, tra il disinfettante e i fazzolettini.

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