“Ila e le Ninfe”di John William Waterhouse, 1896 (Manchester Art Gallery)

Romanzi di passione e lontananza

Nadia Terranova

Il coronavirus ha realizzato il più audace sogno puritano: mettere fuori legge qualsiasi rapporto tranne quelli socialmente dichiarabili. Ma ci sono parole e versi di carne che sanno sfuggire alla clausura

Io scrivo. Tu comincia. – Come si chiama questa cosa? – Non so. Come la vogliamo chiamare? – Questionario sul sogno di fuggire insieme. – Questionario sul sogno di fuggire insieme di due amanti. – Questionario sul sogno di fuggire insieme di due amanti di mezza età”. E’ l’incipit di Inganno, il libro di Philip Roth costruito con i soli dialoghi fra due adulteri, uno scrittore americano e una giovane donna inglese, chiusi nel loro nascondiglio. Parlano, parlano, parlano, prima e dopo aver fatto l’amore, e chi leggerà in tempi di pandemia sentirà soprattutto il frastuono lontano e impossibile, ormai quasi onirico, di due voci acquattate, al riparo dalle loro quotidianità, intente a costruirsi su misura un proprio Decamerone erotico. Eccolo, il vero libro distopico. Darsi appuntamento in un luogo segreto, amarsi pazzamente, far schermaglie, rivestirsi e dirsi addio fino alla prossima volta non è più un rito possibile, da quando il coronavirus ha realizzato il più audace sogno puritano: mettere fuori legge qualsiasi rapporto tranne quelli socialmente dichiarabili.


“E’ molto strano vederti. – Più strano il contrario, no? – No. Di solito io non ti vedo”, scrive Philip Roth in “Inganno”


 

Un giorno, quando la clausura sarà un ricordo e lo sguardo dentro questi giorni si farà letterario, quando insomma qualcuno molto bravo comincerà a scriverci su dei romanzi (i luoghi dove la finzione letteraria permette di dire la verità narrando fatti realmente accaduti o realmente sognati, poco importa), verranno fuori anche le peripezie degli amanti clandestini; oggi no, oggi quelle storie non si possono raccontare e neanche immaginare, le fantasie sessuali sono guastate dalla paura di trovarsi ammanettati a un posto di blocco compilando autocertificazioni. Quanto ai dialoghi, non essendo rimasto in tutto il mondo neppure un nascondiglio, i due amanti di Roth si staranno mandando dei messaggi dopo essersi chiusi in bagno oppure mentre scendono a portare a spasso un cane, un anziano, un bambino (a breve uscirà il chiarimento del chiarimento del chiarimento dell’ultimo decreto che espliciterà ai più ottusi a cosa serve l’ora d’aria: prima di sperare che la gente legga dei romanzi, cerchiamo di esser tutti capaci di leggere un Dcpm, cioè un manuale di indicazioni per adulteri). Quindi, il Philip Roth apocrifo potrebbe continuare così: “Questionario sul sogno di fuggire insieme di due amanti di mezza età al tempo del coronavirus”, e tanto vale levarci subito di torno la battuta sul “cornavirus” come refuso, scherzo di Freud o umorismo di Pierino. E poi ancora, quello scambio che, nell’edizione italiana, tradotta da Raul Montanari, si trova a pagina otto scivolerà invece alla fine: “- E’ molto strano vederti. – Più strano il contrario, no? – No. Di solito io non ti vedo”. Sipario, e forse spaventoso sequel. Chissà che succederà agli amanti che si rincontrano, felici certo, ma anche un po’ angosciati nel ricominciare a giustificarsi per tutte le volte in cui non si vedranno, quando nessun isolamento imposto per legge sarà la scusa per sedare le scenate telefoniche dei pranzi delle domeniche e delle festività con i congiunti (a Pasqua previsto picco di bisogni di animali domestici); comincerà allora la conta delle coppie lasciate, scoppiate, esplose, sia legittime che illegittime, ma anche la conta delle unioni che la reclusione forzata ha rinsaldato, visto che i migliori rapporti di lungo corso sono quelli di chi sa tenere la giusta distanza, dentro e fuori casa, dentro e fuori l’istituzione.


Uno dei più grandi successi del Dopoguerra fu “Cronache di poveri amanti” di Pratolini, elegantemente dedicato: “A mia moglie”


 

Uno dei più grandi successi editoriali del secondo dopoguerra, nel Novecento, fu Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini, elegantemente dedicato: “a mia moglie”. E’ curioso rileggere, oggi, quello spaccato di vite che si intrecciano in una sola strada di Firenze, una scena multipla condominiale che somiglia allo spazio in cui viviamo adesso, ridotto settimana dopo settimana a una manciata di isolati, un nugolo di vie dentro cui si è stipato e per magia ridisegnato il nostro universo. Ruggero Jacobbi ha scritto che in quel romanzo, dopo ogni scena dislocata, si torna a via del Corno, “sempre a via del Corno, che è il luogo perenne dell’azione, emblematico come ogni luogo teatrale investito di globalità”, e che “via del Corno vale quanto la reggia di Danimarca o il salotto di Hedda Gabler, microcosmi che invitano a specchiarsi, nella loro limitatezza formale, un non formale macrocosmo.” Cronache di poveri amanti è pieno di attuali illegalità come assembrarsi sui marciapiedi o entrare nelle case dei dirimpettai, ma in queste settimane, con il grande ritorno della vita di quartiere, tornare a quelle pagine è come guardare attraverso i muri, appiccicare le orecchie alle porte, seguire le fantasticherie sulle facce dei passanti, proiettare la nostra immaginazione sui passi dei vicini di casa, sulle smorfie degli occasionali compagni di sventura nelle code davanti alle botteghe. Del resto, non c’è libro che in ogni pagina, in ogni riga, non contenga svariati reati: leggere un romanzo, oggi, significa condannarsi a essere frustrati in qualsiasi desiderio emulativo, non possiamo salire su una baleniera né fare il giro del mondo in ottanta giorni, non l’avremmo fatto neanche prima, certo, ma nessuno ci impediva di auto-ingannarci sbuffando che, se i nostri capi non cominciavano a riconoscere i nostri mirabolanti meriti, avremmo mollato tutto per trasformarci in Ismaele o in Phileas Fogg. In realtà saremmo rimasti i soliti stronzi, ma saldamente avvinghiati alla preziosa megalomania che invece il coronavirus ci ha tolto (sarà per questo che le persone lamentano di non aver voglia di leggere, perché non hanno voglia di sognare cose impossibili perfino da sognare, o sarà piuttosto che ogni scusa è buona, che preferiamo pulire il forno con lo spruzzino e passare ore a inveire contro il sito dell’Inps pur di non appassionarci alla Lettera scarlatta?)


Comincerà allora la conta delle coppie lasciate, scoppiate, esplose, ma anche delle unioni che la reclusione forzata ha rinsaldato


 

Intanto, non si sa se l’Einaudi sia più sadica o beffarda a far uscire adesso Un male strano, le poesie d’amore di Ausiàs March, curate da Cèlia Nadal Pasqual e Pietro Cataldi. March è un poeta catalano del Quattrocento che indica il corpo come luogo dei sentimenti, una visione non comune nella lirica alta d’amore medioevale. Approda ai suoi versi un eros che viene dalla poesia antica, come quella di Catullo, o dalla novellistica, dalle Mille e una notte al Decamerone, perché in March l’io non è disincarnato, bensì un soggetto che si definisce nel piacere, nell’attesa di darlo e riceverlo, nella sazietà, nel desiderio, nella bramosia, nella preoccupazione costante di appagare ed essere appagati. I curatori presentano March come l’anti Petrarca: per il secondo tutto ruota intorno all’esperienza dell’innamoramento, per il primo intorno alla sessualità, e senza idealizzazione addentrarsi nelle dinamiche che regolano i rapporti tra amanti diventa più complesso e sorprendente. L’io poetico di Ausìas March è generosamente ossessionato dall’orgasmo altrui: “Il mio pensiero è in te prima che in me, / e il mio piacere da te passa per primo; / mai l’ho sentito io prima di te: / il mio volere trova te secondo. / Io mi appago se vedo te appagata, / e questo desiderio è grande tanto / che il sentire è perduto del mio corpo / fino a che la tua voglia non è sazia”. Ma non distraiamoci, non sono questi i versi più utili in quarantena, bensì quelli, che potete ricopiare per i vostri messaggi, sul tempo e la lontananza: “Come colui che gode in un sogno / e il suo piacere viene da un folle pensiero, / succede a me, che il passato mi tiene / l’immaginare, e non ci abita altro bene”, oppure, meglio ancora, “Mi è il mondo senza te un presente vano. / Tutti i giorni, soffrendo, passo un fiume di morte: mi duole, se è per te, che sia corta la strada”. Insomma, Un male strano è un colpo al cuore che ci ricorda che il nostro corpo, in questo momento politico, non esiste per il piacere ma solo in quanto soggetto normato per la sua potenziale pericolosità (in un romanzo contemporaneo pieno di fisicità e di fantasie ossessive, La femmina nuda di Elena Stancanelli, si legge: “Il corpo è l’unico principio di responsabilità che abbiamo. A chi rispondiamo se non al dolore fisico, alla morte, alla fame, alla sete, alla stanchezza?”). Però, intanto che soffriamo nel leggerle, le poesie di March sono anche una risorsa notevole, un serbatoio utile a cui attingere per i fermenti quotidiani dell’umano WhatsApp, sempre tra un bisogno del cane e una passeggiata col pupo.

 

Intanto, il grande romanzo italiano si scrive dentro le case, dentro le relazioni ufficiali, insieme alla fine dell’adulterio consumato, perché le cronache di poveri amanti sono sempre, nello stesso tempo, cronache dei poveri matrimoni. Matrimonio: una parola piena di fantasmi, confortevole nella sua densità di affollamenti invisibili. L’ha scritto Francesco Piccolo nella Separazione del maschio: “Le sere in cui stavo meglio erano quelle dopo che avevo scopato con Francesca o Valeria o qualcun’altra. Perché tutto ciò che facevo mi piaceva, ma ciò che mi piaceva più di ogni altra cosa era stare con Teresa e Beatrice, era guardare negli occhi l’amore sereno e vivo di Teresa, che era ricambiato allo stesso modo, nonostante avessi amato e scopato un’altra donna fino mezz’ora prima”.


“Io mi appago se vedo te appagata, / e questo desiderio è grande tanto / che il sentire è perduto del mio corpo”. March è un anti Petrarca


 

E ancora, Domenico Starnone, in Confidenza: “Mi è così indispensabile che, per restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni del tradimento”. Lo fa dire a Nadia, la moglie del protagonista; lui invece non la tradisce mai, perché essere fedeli alla moglie significa anche essere fedeli a un’altra, a Teresa, e al segreto che solo quell’altra custodisce. Le relazioni sono raggiere, ragnatele, matrioske, è questa somma di pulsazioni che la diffusione del coronavirus ha evidenziato, mettendo sotto gli occhi di tutti l’inesistenza della linearità: le unioni si reggono grazie ad altre unioni, se una vacilla vacillano tutte, una simmetria misteriosa le tiene in piedi e, quando scopriamo che si reggevano sul nulla, quel nulla di sostegno si smaterializza ma non perde l’involucro potente, e infatti restano minacciosi fino alla fine i segreti sconosciuti e in fondo poco importanti che i protagonisti di Confidenza si trascinano dietro per tutta la vita.

 

Come si regge questa perfetta, devastante molteplicità nei giorni in cui i codici sono saltati? Non si tiene, si lascia cadere. Cadono i matrimoni e i secondi matrimoni e i terzi matrimoni, cadono i matrimoni-ombra e le relazioni importanti, scivolano nel nulla le piccole relazioni; cadono le occasioni che avevamo colto ma non c’era stato modo di approfondire e quelle che non avevamo colto perché pensavamo che tanto ci sarebbe stato modo di approfondire; cadono sbirciatine, strofinatine, ammiccamenti, porte aperte, porte socchiuse e buchi della serratura; cade il flirt invernale che non ha fatto in tempo a superare i giorni della merla e il flirt primaverile atteso con la consuetudine e la puntualità della frutta di stagione; cadono i rapporti con i figli, con i nipoti, con i genitori; cade tutto e non bisogna tenere in piedi niente. Cadono e si rimandano le decisioni importanti: staremo insieme un altro po’ o ci lasceremo per sempre, due proiezioni uguali e opposte lanciate oltre la linea del quando rivedremo la persona che vogliamo vedere, la stessa di quando potremo scegliere di uscire di casa e non rivedere più la persona che lasceremo dentro, ma sarà poi vero? E comunque, chi sa quando accadrà? Cade tutto, ma per finta; tutto si tiene, tutto si rimanda. Le corna, quelle si terranno da sole o moriranno di morte naturale per lasciare posto a nuove relazioni, a nuove proiezioni di infinito, a nuovi tradimenti. O forse no, cadrà tutto e risorgerà dopo Pasqua, in una teologia necessaria, il corpo e la carne del matrimonio torneranno a essere il corpo e la carne dell’adulterio, e il tempo passerà come una spazzola su queste settimane riconvertendo gli umani in esseri complessi, scissi in pluralità di ruoli: marito, moglie, amante, o anche solo la banale, perduta possibilità di essere tutto senza scegliere. Per una nuova definizione di claustrofobia, vedi alla voce contagio: non avere la fantasticheria a portata di mano è più dannoso per i monogami che per i fedifraghi da quando, se l’alternativa non c’è, optare per la fedeltà non ha più nulla di nobile. “L’amore è tutto ciò che si può ancora tradire”, scriveva Andrea Pazienza, e oggi viviamo la pesantezza di quant’è vero.


“Per restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte secondo tutte le possibili accezioni del tradimento” (Starnone)


 

Il grande romanzo sul coronavirus non sarà un solo romanzo, ma una linea rossa fra romanzi diversi, e sarà anche una storia di corna, ovvero una storia di famiglie. Le famiglie, si diceva, sono luoghi affollati da creature visibili e invisibili, umane e non umane. In Affari di cuore di Nora Ephron, la protagonista spiega: “La ragione per cui il mio matrimonio con Charlie andò in fumo (anche se forse vi starete chiedendo come abbia fatto a durare tanto) non fu né la sua relazione con la mia vecchia amica Brenda né il fatto che lei gli avesse trasmesso le piattole, bensì la morte di Arnold”. Arnold, nel romanzo, è un criceto; Ephron scriverà poi, in un capitolo di un altro libro, Il collo mi fa impazzire, che l’unico modo per tollerare il suo divorzio era stato renderlo raccontabile e trasfigurarlo in un romanzo di successo: “Trasformo i gatti del mio primo marito in criceti e l’ambasciatore britannico in un sottosegretario di stato e appioppo una barba al mio secondo marito”. Non occorre che i separandi scrivano adesso i loro primi capitoli, ma può essere utile annotare le minuzie: osservare i gatti e i pesci rossi e sognare, dopo il decreto libera-tutti, di trasformarli in criceti. Quanto alla barba, con i parrucchieri chiusi sarà più facile copiare la realtà.


Il progetto di Erika Lust, regista del porno: tutti possono inviare una mail con il racconto di una fantasia segreta e lei le trasforma in film


 

Per il momento, bisogna farsi andar bene quello che si ha, qualsiasi cosa sia, dalla solitudine alla convivenza felice alla convivenza forzata, più tutto il ventaglio intermedio. Erika Lust, regista e produttrice porno, ha pubblicato sul suo sito una guida erotica alla quarantena, con consigli mirati rivolti ai single, alle coppie che vivono insieme e a quelle a distanza, e ha chiuso con la raccomandazione di contribuire, in questo momento difficile, a incrementare in qualunque modo legale l’amore e la lussuria nell’universo. Il suo progetto x-confessions è nato prima del mondo contagiato ma sembra fatto apposta: tutti possono inviare una mail con il racconto di una fantasia segreta e fra queste, periodicamente, lei ne sceglie alcune che trasforma o fa trasformare in film, e che restano online andando a costruire un diario pubblico delle fissazioni private. Sarà interessante notare come cambiano, se cambiano, le richieste nell’epoca della segregazione.

 

Intanto, in Italia, il popolo che canta dai balconi ha preso coraggio e, dopo aver messo in scaletta, nell’ordine, l’inno di Mameli, il vero inno nazionale (Azzurro), il vero inno nazionale dei fuorisede (Ma il cielo è sempre più blu), il vero inno nazionale di quelli per cui la quarantena non è una novità (Amici non ne ho), è pragmaticamente passato a Com’è bello far l’amore da Trieste in giù. Cantano tutti, ma più forte degli altri cantano quelli che non si affacciano, la voce viene dalle finestre come quella degli uccelli in gabbia. La canzone più profetica e sciagurata, in realtà, l’aveva scritta Guccini nel 1987, in uno degli album più meravigliosi di tutti i tempi, Signora Bovary: “Soffiasse davvero quel vento di scirocco, e arrivasse ogni giorno per spingerci a guardare dietro la faccia abusata delle cose, nei labirinti oscuri delle case”. Lo sapevamo, l’abbiamo sempre saputo che la maledizione peggiore è veder trasformati i nostri desideri in realtà, disgraziato maestro, allora buttiamoci su Dua Lipa e volteggiamo tra l’aspirapolvere e il riassetto della libreria, dal soggiorno al balcone, dal frigo vuoto alla cantina piena: “I would’ve stayed at home ‘cause I was doing better alone”.


Il flirt invernale che non ha fatto in tempo a superare i giorni della merla e il flirt primaverile atteso con la consuetudine della frutta di stagione


 

Future nostalgia, il titolo dell’album di questa ventiquattrenne albanese di origini albanesi e kosovare, è una giusta sintesi dello struggimento di primavera, e ballare scomposti mentre si inneggia alla malinconia per un domani che non conosciamo né sappiamo quando arriverà è una buona idea, perché la cosa più sensata che possiamo fare nelle nostre case e nelle nostre vite è renderci ridicoli, consapevoli che se abbiamo un tetto sulla testa e non siamo in pericolo immediato non ci è permesso lamentarci troppo. Sarebbe questo il vero decreto: bandire la lagna per circolare ministeriale, istituire l’obbligo di rimboccarsi le maniche e dare una mano a chi ha più bisogno, ciascuno come può; poi, certo, sbroccare all’ora del vino e piangere al telefono per i piccoli giganteschi drammi che vanno dalla rottura delle relazioni a quella delle tubature, ma di nascosto e vergognandoci forte, come si conviene alle cose importanti e inconfessabili, sempre in attesa di ficcare tutto nel grande coronaromanzo, o cornaromanzo che tanto è uguale.


“L’amore è tutto ciò che si può ancora tradire”, scriveva Andrea Pazienza, e oggi viviamo la pesantezza di quant’è vero 


In un altro libro italiano sul tradimento, ambientato in un trascorso decennio, Prima di sparire, Mauro Covacich a un certo punto scrive: “Se ti chiudono in un posto per quindici anni senza che tu abbia fatto niente, cominci a chiederti cos’hai fatto e soprattutto a chi. E alla fine, anche se sei innocente, scopri di aver fatto comunque del male a un sacco di gente”. E’ il commento a un film di Park Chan-wook, Old boy, e in quel momento la persona che racconta la storia si rende conto che non è un film sulla vendetta, ma sull’innocenza. Praticando lo stesso slittamento, la frase non è una riflessione sul film ma, come tutto il romanzo, sul matrimonio. E praticandolo oggi, quello slittamento si configura come una sentenza sulla vita sentimentale della gente in quarantena, e su un sacco di altre cose che saranno scritte al tempo giusto, il giorno in cui gli scrittori trasformeranno gli animali in criceti e renderanno divertente ciò che oggi sembra non esserlo affatto.