Luigi Di Maio e Roberto Fico nel 2015 a Napoli: allora erano semplici parlamentari del M5s (foto LaPresse)

Cancellare per sempre il modello gialloverde

Alessandro Dal Lago

Il M5s, una bufala per elettori ingenui o disperati. Si spacciavano per rivoluzionari ed erano solo arrivisti di provincia. Non ne hanno azzeccata una. Dovevano cambiare il paese e ci hanno messo nelle mani di un piccolo despota lombardo

Ho diversi conoscenti, alcuni anche di una certa cultura, che mi hanno confessato a denti stretti di aver votato M5s nel 2013 (secondo me, anche nel 2018, ma ora se ne vergognano proprio e negano o non ne parlano). Per loro il M5s avrebbe “tradito” i suoi elettori. E’ una sciocchezza colossale. Si sono traditi da soli. Bastava frequentare il blog di Beppe Grillo, andare a un suo spettacolo o a un comizio, leggere i ridicoli statuti del MoVimento, farsi un’idea delle utopie digitali di Casaleggio Sr, più comiche che tragiche, e chiunque doveva accorgersi che il M5s (che io a suo tempo ho ribattezzato “Mo’ vi mento”, pensando alle fregnacce pubblicamente elargite da Grillo) era una presa per i fondelli sociale e politica. Una bufala per elettori ingenui o disperati, che permetteva però a una discreta folla di professori di liceo, informatici, laureati in Scienze della comunicazione, studenti fuori corso, profughi di partiti vari, di accedere alla sfera pubblica, ma totalmente digiuni di politica e di minime competenze amministrative. Il caso di Virginia Raggi, la sindaca di Roma più impopolare dai tempi di Romolo e Remo, è esemplare (ma lo è anche la tribù di attori, giornalisti, soubrette ecc. che hanno pompato lei e i suoi simili, salvo pentirsi quando le cose sono andate male, come è d’uso in Italia).

 

C’è qualcosa di patetico nella vicenda del M5s. Tutto comincia con un comico esagitato che aizza le folle contro la casta – come se lui fosse un Savonarola postmoderno e non invece una strapagata star teatrale. Poi arriva lo stralunato consulente aziendale Casaleggio, che – parole del comico – lo prende per mano e gli spiega che la realtà oggi, ohibò, non è più reale, ma virtuale e che quindi i Vaffa-day vanno bene per fare un po’ di casino e finire sui giornali, ma il potere si conquista in rete. Il comico, che fino allora esaltava il metodo Di Bella, esecrava i vaccini e sfasciava i computer in scena, è folgorato da Internet sulla via di Ivrea, patria del consulente, e dà vita al M5s con l’idea di sostituire le elezioni politiche con quelle elettroniche – che ovviamente, qualora fossero tornate dal virtuale al reale, sarebbero state controllare dal consulente aziendale e dalla sua ditta. Obiettivi immediati: una pista ciclabile per tutti, Internet libera, No Tav, No Tap, distruzione della casta, abolizione di destra a sinistra, fine dei partiti e della democrazia rappresentativa. Dichiara nel 2013 Beppe Grillo in un’intervista a Time: “Quando avremo il 100 per cento, ci scioglieremo”. E aggiunge: “Non ci sono soldi né carriere in questo movimento” (il Sole 24 Ore del 7 marzo 2013).

 

Non dimentichiamo queste parole, mentre cerchiamo di capire che cosa sta succedendo oggi, nell’agosto 2019. Non ci saranno le carriere nel Mo’ vi mento, ma le cadreghe sì. Ma ora è urgente un quesito: come è possibile che milioni di elettori abbiano creduto a queste scemenze? L’odio per i partiti non basta a spiegare. E nemmeno le analisi troppo ragionevoli che chiamano in causa i backlash della globalizzazione, le rivolte delle periferie, le odiose élite globaliste e multiculturali ecc. ecc. Che altro possiamo invocare? La fine delle ideologie? Il diavolo, probabilmente? O forse uno stupefacente collasso dell’intelligenza media del paese – altro che il general intellect di cui vaneggiano alcuni –, annichilita dalla diffusione tossica di telefonini, computer portatili, social, app, selfie, lauree triennali in scienze inesistenti, film delle sorelle Wachowski, ecologia à la carte e così via?

 


Si sono comportati da dilettanti ciechi, ma arroganti e sprezzanti di ogni minima arte politica e decenza pubblica. Avevano il 32 per cento, potevano fare quello che volevano – se avessero avuto un’idea che fosse una – e giorno dopo giorno si sono fatti sfilare dall’Uomo Nero il consenso


 

Si spacciavano per rivoluzionari ed erano solo arrivisti di provincia, sotto sotto con il modello diccì in testa. Diccì, classicamente, è la pretesa di non essere né di destra, né di sinistra, ma tutt’e due – così si possono acchiappare elettori in libera uscita da qualsiasi partito. E diccì è il trasformismo di gente di sinistra in qualunquisti, di gente di destra in ecologisti, di gente di centro in estremisti. Ma almeno i democristiani veri – e qui l’antipatico paragone finisce – erano pluralisti, davano spazio alle idee più varie, annoveravano Scelba e Donat Cattin, Andreotti e Moro, Zaccagnini ed Evangelisti, si dividevano in rivoli e correnti, tramavano apertamente, complottavano alla luce del sole. Mentre questi emuli di periferia, reclutati negli anfratti della società postmoderna, sono stati per anni tetragoni a qualsiasi trasparenza, dipendenti dal verbo del comico e dello spettrale consulente aziendale, privi di qualsiasi dignità pubblica e personale, fino al punto di farsi rappresentare in pubblico da un reduce del “Grande Fratello”. Giustizialisti verso gli altri e verso se stessi, specialisti dell’espulsione dei dissidenti proclamata dal comico e dal consulente in berrettone – in nome di princìpi che venivano violati allegramente e legittimamente la volta dopo. Familisti peggio di una cordata di accademici, al punto di non battere ciglio quando a governarli è subentrato il figlio del consulente, nel frattempo passato a miglior vita. Un’azienda di famiglia che controlla tramite un blog un movimento che vorrebbe governare la società. Un imperdibile esempio di potere al popolo.

 

Uno sguardo ai leader

Consideriamo i loro leader. Uno è un giovane con il vago aspetto di impiegato delle pompe funebri, azzimato e sotto sotto serpentello, una specie di Uriah Heep di Pomigliano d’Arco. Grillo a suo tempo lo ha definito uno “statista”, ma più che altro è uno statale mancato visto che non ha concluso gli studi di legge. L’altro, un po’ cooperatore e un po’ globetrotter, un po’ fascista e un po’ no, un po’ terzomondista e un po’ no, inspiegabilmente intervistato un giorno sì e uno no da tv, giornali e media assortiti. Un tizio che non si sa che cosa sappia fare, tranne rispondere alle interviste e, si dice, infiammare il popolo con la sua parlantina. Il terzo, quello buono e simpatico, di sinistra e con barba d’ordinanza, misteriosamente finito a presiedere la Camera – miracoli della democrazia rappresentativa che pure lui, con gli altri due, voleva abolire… Il primo, si è detto, studente fuori corso e gli altri laureati in Scienze della comunicazione – il che dovrebbe far riflettere chiunque, a qualsiasi titolo abbia avuto a che fare con detto corso, sugli effetti delle Scienze della comunicazione (io ne ho fondato uno di questi corsi, lo confesso, ma erano altri tempi e altri luoghi, e comunque faccio pubblica ammenda). E poi c’è il presidente del Consiglio con il fazzoletto nel taschino della giacca, il giurista che vanta studi all’estero assai problematici, saltato fuori dal cappello della ditta a 5 stelle senza avere altra esperienza politica che non fosse la frequentazione dei consigli di Facoltà. Uno assai più civile e presentabile degli altri tre, ça va sans dire, ma come ce ne sono decine di migliaia in giro per le facoltà di legge, gli studi d’avvocato, i mille ripostigli pubblici e privati delle professioni forensi, amministrative e notarili. Perché lui e non un altro? Solo la storia ce lo dirà, anche se il nostro interesse per la questione non è lancinante.

 

Chi detta l’agenda

Ed eccoli, questi eletti al Parlamento, il 7 agosto 2019, sei anni dopo la loro prima clamorosa affermazione, e dopo un anno e mezzo dal futile trionfo, che hanno cominciato a strillare, come pecore nello stabbio, dopo che Salvini aveva deciso di tagliar loro la gola. Ma perché il loro destino non ci muove a compassione? Perché non ci turberebbe se, abbandonato lo scranno e la buvette, buttata via la grisaglia e chinata la testa davanti al fato, tutta questa gente se ne tornasse a casa, nell’anonimato della famiglia e dell’ufficio? La risposta è semplice: perché hanno raggirato se stessi e i loro elettori e molestato noi che non li abbiamo votati, al di là di ogni immaginazione e sopportazione. Perché si sono comportati da dilettanti ciechi, ma arroganti e sprezzanti di ogni minima arte politica e decenza pubblica. Ricordiamoci di quando sono comparsi al balcone di Palazzo Chigi, il 28 settembre 2018, i ministri grillini con Di Maio in testa, davanti a una folla di parlamentari e portaborse. “Abbiamo abolito la povertà!” , gridavano invasati, manco fossero dei giacobini ed erano soltanto dei sansepolcristi.

 


In questa storia c’è almeno un aspetto positivo: un equivoco sta rapidamente finendo, un’illusione svanendo nel cielo d’agosto. La possibile o beneaugurata scomparsa, o almeno riduzione radicale, del grillismo ci potrebbe far tornare a una sana contrapposizione destra-sinistra, con o senza cespugli in mezzo


  

Avevano il 32 per cento, potevano fare quello che volevano – se avessero avuto un’idea che fosse una – e giorno dopo giorno si sono fatti sfilare dall’Uomo Nero il consenso. Dal 32 per cento del 4 marzo 2018 al 16 o giù di lì d’oggi. Solo Renzi è stato capace di una simile prestazione, dopo il referendum del 2016, e non è un caso che, mentre scrivo, renziani e grillini si stiano accordando sotto banco per salvare la ghirba parlamentare. Il fascino dei perdenti moltiplicato per due. E si noti che fino all’altro ieri si insultavano, le due tribù, coinvolgendo i reciproci babbi… Un esempio di coerenza morale, non c’è che dire. Sono loro, i grillini, ad avere trasformato Salvini, da leader di una maggioranza regionale e minoranza nazionale a minaccia per la democrazia parlamentare. Non ne hanno azzeccata una, a partire dalla nomina dall’alto di Di Maio come “capo politico”, una locuzione risibile (perché ci sono altri tipi di capi in un movimento o partito?), visto anche che il giovanotto in questione non aveva alcuna stoffa, né come politico né come capo. In qualsiasi altro paese o partito, un leader che dimezza i consensi dopo un anno di governo sarebbe stato preso a pedate e sostituito senza indugio da chiunque, al limite da una cuoca, da un passante sorteggiato a caso, persino da Di Battista. E invece questi se lo sono tenuto, con il suo sorrisino compunto da giovane così bravino e ammodo, signora mia, ah come vorrei che sposasse mia figlia, che peccato che non sia laureato, ma tanto oggi la laurea è solo un pezzo di carta…

 

Chinatisi a 90 gradi, Di Maio e i suoi imbarazzanti ministri e sottosegretari hanno concesso tutto a Salvini, a partire dalla riduzione di Conte a notaio del famoso contratto, cioè a comparsa, giusto per non fare troppe figuracce a Bruxelles, dopo quelle fatte a Parigi in gilet giallo. I grillini hanno votato qualsiasi legge trumpiana venisse loro imposta (sicurezza 1 e 2 ecc.), hanno straparlato di “taxi del mare”, diffamato le Ong e lasciato che l’Uomo Nero diventasse il vero beatus possidens del potere, esautorando le competenze altrui in tema di confini, migrazioni, politica internazionale ecc. (ma qui bisognerebbe anche chiamare in causa illustri ectoplasmi come Moavero, di cui si dice che fosse ministro degli Esteri, e magari chiedersi, con la massima deferenza, se Mattarella, insomma, non poteva darsi una mossa, lanciare magari ulteriori e opportuni messaggi costituzionali, dopo aver accettato Salvini come ministro dell’Interno).

 

Si noti. Il 5 agosto, i consumati statisti grillini votano in massa il turpe decreto bis sulla sicurezza (che sarà probabilmente sforbiciato dalla Corte costituzionale), tranne qualcuno che se la fila per la vergogna, Fico in testa, e il 7 Salvini li accoltella, con il suo modesto 17 per cento del 4 marzo 2018, trasformatosi in 32 alle europee e foriero di una maggioranza schiacciante, se si votasse oggi. Ora, se gli statisti in questione, invece di frequentare la ditta Casaleggio e farsi indottrinare da Rocco Casalino, avessero sfogliato un manuale di scienza politica, ma terra terra, per matricole, avrebbero scoperto che in una coalizione è il socio di maggioranza che dovrebbe dettare l’agenda, non quello di minoranza. A patto tuttavia, che chi ha il 32 per cento disponga di cabasisi politici e non si faccia spaventare dagli urlacci dell’altro. Per farla breve, i grillini si sono sputtanati alla grande.

 

In cambio di cosa? Di un reddito di cittadinanza che non piace a nessuno, nemmeno ai beneficiari, e che quindi ha scornato gli elettori? Della speranza di salvaguardare la prebenda di parlamentari per qualche anno ancora? O di trasformare la democrazia rappresentativa in plebiscito elettronico? E così, questi campioni del popolo sovrano oggi si attaccano alle poltrone di rappresentanza, mentre Salvini si aggira per le spiagge con il famoso coltello. Ma se hanno fatto questa fine ridicola, è perché sono della stessa stoffa sua, ma senza idee chiare sul potere, sul futuro, sull’economia, su nulla. Esemplare la loro ridicola mozione anti Tav, decisa per non sputtanarsi del tutto con i valligiani, ovvero sputtanandosi il doppio – dopo il tradimento, la beffa.

 

La pretesa di essere né di destra né di sinistra

Dovevano aprire il parlamento come una scatola di tonno e l’hanno svuotato di ogni sostanza. Dovevano cambiare il paese e ci hanno messo nelle mani di un piccolo duce lombardo che parla direttamente al popolo in mutande di Milano Marittima e Capo Rizzuto (ma un ducetto spregiudicato, sparigliatore, arrischiato, infinitamente più furbo di loro, anche se forse meno intelligente di quanto lui si creda). Dovevano superare la democrazia parlamentare e ci stanno portando verso un territorio incognito e pericoloso – immaginiamoci un Salvini premier con Meloni a reggergli la coda e magari il prossimo presidente della Repubblica eletto direttamente da lui, un incubo che si materializza ogni giorno di più, sia che si voti a ottobre o a febbraio o quando i grillini decideranno di mollare le poltrone. Un incubo che potrebbe peggiorare in futuro, se Salvini fosse fatto fuori dall’accoppiata Grillo-Renzi e lasciato libero di scorrazzare per il paese aizzando le folle contro gli stranieri, gli zingari, l’inciucio, il Parlamento, l’Europa e qualsiasi altra cosa gli passi per la testa, visto che l’inventiva non gli manca.

 

Ma in questa storia c’è almeno un aspetto positivo: un equivoco sta rapidamente finendo, un’illusione svanendo nel cielo d’agosto. La possibile o beneaugurata scomparsa, o almeno riduzione radicale, del grillismo ci potrebbe far tornare a una sana contrapposizione destra-sinistra, con o senza cespugli in mezzo. Tutto sommato, il grillismo aveva incarnato per un decina d’anni il sogno di Gaber: “Tutti noi ce la prendiamo con la storia / Ma io dico che la colpa è nostra / E’ evidente che la gente è poco seria / Quando parla di sinistra o destra”. E invece no, la serietà è sempre stata nel riconoscere che in una democrazia parlamentare ci si accapiglia sulle opzioni fondamentali: liberalismo vs socialdemocrazia, garantismo vs giustizialismo, Europa vs neo-nazionalismo, apertura delle frontiere vs chiusura, diritti umani vs abuso di potere… Per natura, la democrazia parlamentare di una società complessa è dualista. Il sistema elettorale può moderare il dualismo, mettere dei vincoli al vincitore, garantire il ricambio, ma alla fine gli intrusi non potranno che essere cacciati di qua o di là. Il M5s, con la pretesa di non essere né di destra, né di sinistra, ha cercato di rappresentarle tutt’e due e alla fine ha deluso gli elettori di entrambe.

 

Così, la lotta politica ritorna alle sue ragioni fondamentali. Tra queste, la scelta tra il comando di uno solo e un sistema di contrappesi che solo la democrazia rappresentativa può garantire. Declinato il populismo digitale grillino, si spera, resta da affrontare quello sudaticcio delle spiagge e delle piazze. Ma questa, nella vaga insipienza della destra e della sinistra d’oggi, impegnate allegramente a scindersi, non è impresa di poco conto.

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