Il ministro dell'Interno Matteo Salvini al termine dell’incontro con le parti sociali (foto LaPresse)

L'eredità del governo gialloverde ha ipotecato qualsiasi manovra

Luciano Capone

Matteo Salvini ha deciso di staccare la spina al governo gialloverde non il giorno della votazione sulla Tav, ma quello precedente, quando ha incontrato le parti sociali

Roma. Anche se in questi giorni sta mostrando pentimenti e ripensamenti, Matteo Salvini ha deciso di staccare la spina al governo gialloverde non il giorno della votazione sulla Tav, ma quello precedente. Il 6 agosto ha incontrato, per la seconda volta, al Viminale le parti sociali per discutere l’impostazione della prossima legge di Bilancio e le oltre 40 delegazioni hanno fatto al leader della Lega tre tipi di richieste: interventi a favore delle rispettive categorie, non toccare le tax expenditures che riguardano i propri associati ed evitare di sfasciare i conti pubblici. Si tratta di un triangolo inconciliabile, perché composto da spinte contraddittorie che ne impediscono la chiusura. Da quell’incontro, dopo aver lanciato dichiarazioni incendiarie contro il ministro dell’Economia Giovanni Tria, Salvini si è reso conto che si stava per imbarcare in una manovra in cui, inevitabilmente, avrebbe scontentato qualcuno: non è possibile mantenere le promesse elettorali (flat tax), senza aumentare l’Iva (clausole di salvaguardia), senza tagliare la spesa (o le tax expenditures) o senza aumentare a dismisure il deficit (procedura d’infrazione). Così ha fatto un passo indietro e ha rilanciato: o elezioni subito (così la Lega passa all’incasso nel momento di maggior consenso nei sondaggi) oppure la manovra la fa un altro governo (che dovrà assumersi il costo politico di scelte impopolari).

 

I numeri lasciati in eredità dal governo gialloverde sono impietosi. Prima di qualsiasi intervento aggiuntivo, per rispettare i saldi di bilancio che hanno evitato la procedura d’infrazione, bisogna trovare 23 miliardi per disattivare l’aumento dell’Iva e 4 miliardi di spese indifferibili (missioni militari, contratti del pubblico impiego e altre spese), per un totale di 27 miliardi. A questo va aggiunto il mancato gettito dovuto alla minore crescita. Il Def prevede una crescita nominale del 2,8 per cento – più del doppio rispetto al 2019 (1,2 per cento) – dovuta per lo 0,8 per cento da crescita reale e per il 2 per cento dal deflatore del pil (inflazione). Entrambe le componenti sono sovrastimate. Storicamente nelle previsioni il deflatore viene gonfiato per far tornare i numeri e poi si sgonfia a consuntivo. Ma anche la crescita allo 0,8 per cento è un miraggio, visto che ad esempio secondo l’Upb sarà la metà e considerato il deterioramento del quadro europeo e internazionale. Un punto in meno di pil nominale, una previsione ottimistica, vuol dire 7 miliardi di minori entrate. Per mantenere il deficit all’1,8 servono circa 35 miliardi. E’ vero che in caso di peggioramento del ciclo economico la Commissione concede flessibilità, perché guarda al cosiddetto deficit strutturale, ma ciò implica che se anche l’Europa si accontentasse di una politica fiscale neutra bisogna recuperare quasi 30 miliardi attraverso maggiori entrate o minori spese.

 

Un governo Pd-M5s che nascesse con l’obiettivo – già annunciato – di evitare l’aumento dell’Iva si troverebbe, molto probabilmente, di fronte a scelte molto difficili: attivare solo parzialmente le cosiddette clausole di salvaguardia e quindi non riuscire a rispettare la promessa; tagliare seriamente la spesa pubblica a partire dal Rdc e quota 100 (un suicidio per il M5s, che smentirebbe le sue politiche); aumentare altre imposte – ad esempio sulla casa – per evitare l’aumento dell’Iva (un suicidio per il Pd, che metterebbe nuove vere tasse al posto di quelle virtuali messe da Salvini). E’ vero che un nuovo esecutivo Pd-M5s potrebbe ottenere maggiori aperture dall’Europa, ma quest’anno mancheranno all’appello anche 18 miliardi di privatizzazioni messi a bilancio dal governo Conte. E il debito pubblico si metterà da subito su una pericolosa traiettoria crescente, aggravato dal pil stagnante. L’Europa potrà forse chiudere un occhio, come spesso ha fatto, ma non entrambi. Chi si appresta a stringere un patto su queste basi per fermare Salvini farebbe meglio a tenerli aperti per fare bene i conti.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali