Foto LaPresse

Il problema è la povertà, non la disuguaglianza

Lorenzo Borga

Dove intervenire. Nella trattativa con il M5s, il Pd chiede una “svolta delle ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”. Ma è l’impoverimento che, a differenza della disuguaglianza, è più che raddoppiato con la crisi economica

Con le trattative per la formazione del nuovo governo tra Pd e M5s, i giornali si interrogano per trovargli un aggettivo calzante. Per ora lo si definisce “governo giallo-rosso”, ma il riferimento al calcio sembra troppo diretto. Lo si potrebbe chiamare “governo contro la disuguaglianza”, a sentire le parole di chi sta trattando per formarlo. In particolare è nei punti programmatici del Partito Democratico che troviamo le frasi più convinte sul contrasto alla disuguaglianza. Uno tra i punti votati dalla direzione del partito per intavolare la trattativa con i 5 Stelle richiede infatti una “svolta delle ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”. Il segretario Zingaretti ha rincarato la dose durante le comunicazioni al Quirinale dopo le consultazioni del suo partito, dicendosi preoccupato per la crescita “di molti indici di disuguaglianza sociale”.

È un punto interessante su cui interrogarsi, dopo anni in cui il tema della disuguaglianza è cresciuto nel dibattito tra economisti e non. Anche i non addetti ai lavori conoscono i lavori di Thomas Piketty, stimato più fuori dall’accademia che all’interno, e la “curva dell’elefante” di Branko Milanovic. Allo stesso tempo sono sempre più numerose le dichiarazioni politiche da sinistra come “l’Italia ha un alto tasso di disuguaglianza” o “la disuguaglianza è uno dei principali problemi del nostro tempo” (entrambe frasi pronunciate da Zingaretti). Se è vero che questo fenomeno produce effetti molto negativi sulle società che ne soffrono – in termini di coesione sociale, equità ma anche opportunità di crescita economica per tutti – in Italia la situazione sembra differente da quella dipinta da Zingaretti.

 

La disuguaglianza di reddito è aumentata?

Quando si parla di redistribuzione, la prima disuguaglianza da contrastare che viene in mente è quella di reddito. Badate bene: non è l’unica. Con un fenomeno tanto complesso, le sfaccettature sono numerose: disuguaglianza di genere, intergenerazionale, regionale, etnica. Però concentriamoci sul reddito, quella di più immediata comprensione e sulla quale è disponibile la maggior mole di statistiche. Parliamo quindi della forbice tra quanto guadagnano i ricchi e quanto i poveri.

 

La globalizzazione ha portato nella seconda metà del secolo scorso un aumento di questa forbice in molti dei paesi occidentali, in particolare quelli più legati all’economia di mercato. Soprattutto negli Stati Uniti, dove alla fine degli anni ’70 il 10 per cento più ricco della popolazione guadagnava poco più di un terzo del reddito totale, mentre nel 2010 aveva raggiunto il 45% (4,5 volte la sua stazza). Aumenti minori, ma della stessa unità di grandezza, sono avvenuti negli altri paesi anglosassoni, con l’eccezione parziale dell’Australia.

 

La disuguaglianza in Italia oggi è a livelli simili a quelli di 15 anni fa
e non è in corso un allarme-divario sociale come sembra pensare
il segretario del Pd. A questo proposito, appare anche curioso sostenere
la necessità di una svolta sociale senza riferimenti alla crescita

 

E l’Italia? Secondo i dati del World Inequality Database, la disuguaglianza è cresciuta in modo forte e repentino tra il 1980 e il 2000, quando l’indice di Gini – che misura quanto la distribuzione del reddito tra i decili della popolazione si discosta dalla massima uguaglianza possibile - è aumentato del 20 per cento, molto più che in Stati Uniti e Regno Unito. Da allora tuttavia lo scenario è cambiato: la disuguaglianza in Italia è prima diminuita e poi ri-aumentata, ma meno che in passato. Il Gini è salito di poco meno il 4 per cento, continuando a oscillare tra lo 0,31 e 0,33 (il suo massimo è 1, il minimo 0), mentre la crescita negli Stati Uniti ha raggiunto il +6 per cento e in Svezia il +15. Il rallentamento italiano del ritmo di crescita delle ineguaglianze si osserva anche nella dinamica delle quote di reddito: rispetto al livello del 1980, il reddito detenuto dall’1 per cento più ricco della popolazione è aumentato enormemente fino ai primi anni 2000, per poi però leggermente calare fino ai giorni nostri. Lo stesso – con una magnitudine inferiore - è avvenuto al top-10 per cento degli italiani. La classe media, invece, ha continuato a guadagnare la stessa quota di reddito nazionale. Insomma, la disuguaglianza è oggi a livelli simili a quelli di 15 anni fa, e non è in corso un allarme-divario sociale come sembra sostenere il segretario del Pd. A questo proposito, facendo ancora riferimento alle parole di Zingaretti e ai punti programmatici del suo partito, sembra anche curioso sostenere la necessità di una svolta sociale senza riferimenti alla crescita, dopo un anno in cui sono stati stanziati dal precedente governo circa 10 miliardi di euro per le misure assistenziali di reddito di cittadinanza e quota 100, e con un paese in cui l’incremento del Pil non dovrebbe superare lo 0,1 per cento annuo.

 


  

Fonte: World Inequality Database, tratto da un contributo di Giovanni Gallo pubblicato su eticaeconomia.it 


 

È disuguaglianza o povertà?

A prescindere dall’andamento degli ultimi anni, il livello di disuguaglianza in Italia si è sempre aggirato su livelli medi rispetto al resto dei paesi. Almeno su questa classifica internazionale infatti non occupiamo i posti peggiori. L’Italia si trova leggermente sopra le medie Ocse ed europea, a livelli più elevati rispetto a Germania e Francia, ma dietro Spagna, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti. Il punto però cruciale è un altro. Per misurare la disuguaglianza, possiamo infatti prendere in considerazione l’indice di Gini, come abbiamo fatto fino a ora, oppure stimare la forbice tra i redditi dei più ricchi e quelli dei più poveri. In questo caso, secondo i dati dell’Ocse, il nostro paese si trova in 24esima posizione sui 38 paesi considerati, con un reddito dei più ricchi 4,5 volte più grande rispetto a quello del decile più povero degli italiani (leggermente sotto la media). Ma, se dividiamo questa forbice in due e prendiamo in considerazione la differenza di reddito tra i più ricchi e la classe media e quella tra la classe media e i più poveri, possiamo comprendere da dove derivi la disuguaglianza italiana. Da un’eccessiva ricchezza dei più agiati, o dall’estrema povertà di chi sta peggio?

  

La reale causa della disuguaglianza in Italia non appare tanto l’aumento
del reddito dei ricchi – come una certa retorica sostiene – ma il crollo
che il benessere dei più poveri ha subito dalla crisi economica in poi.
E le misure per contrastare i due fenomeni, per quanto possano apparire coincidenti, sono molto differenti

  

La risposta è presto detta. Su quanto guadagnano i ricchi rispetto alla classe media, l’Italia si posiziona al 18esimo posto su 38 paesi, leggermente meglio della media internazionale. Sui più poveri invece perdiamo 7 posizioni, e finiamo peggio del dato medio. Ciò sembra significare che la reale causa della disuguaglianza in Italia non sia tanto l’aumento del reddito dei ricchi – come una certa retorica sostiene – ma il crollo che il benessere dei più poveri ha subito dalla crisi economica in poi. Questo ha un’implicazione molto importante sul giudizio sulla disuguaglianza, che potrebbe rivelarsi un falso problema. Il tema vero appare infatti essere la povertà, mentre l’aumento della disuguaglianza si può relegare a semplice effetto collaterale. Questa analisi è confermata anche dagli esperti. L’economista Massimo Baldini su Lavoce.info aveva scritto proprio questo, alcuni mesi fa. Baldini fa notare come durante la crisi i redditi di tutta la popolazione sono mediamente diminuiti, ma la perdita è stata molto superiore per il 10 per cento più povero della popolazione, che ha visto il proprio reddito crollare di un terzo. Se i poveri piangono, i ricchi non ridono poiché anche loro hanno dovuto subire delle riduzioni, di meno del 10 per cento. Il fenomeno più rilevante, conclude Baldini, appare quindi quello della povertà e non della disuguaglianza. Anche Marco Leonardi, professore di economia alla Statale di Milano, ha fatto notare che a partire dagli anni ’90 è in corso una dinamica – questa volta sui salari – di forte riduzione per le fasce più deboli della popolazione, mentre la classe media e i più agiati rimangono sostanzialmente stabili. Invece a ben guardare il fenomeno dell’impoverimento, a differenza della disuguaglianza, è più che raddoppiato con la crisi economica. Nel 2006 le persone in povertà assoluta erano 2,3 milioni, dieci anni dopo l’Istat ne contava 4,7.

 

Se davvero questo governo s’ha da fare, dovrà partire con i giusti presupposti, e la corretta base di valutazione della situazione economica, a prescindere dalle opinioni di merito. Altrimenti sarebbero guai. Le misure per contrastare i due fenomeni – povertà e disuguaglianza – per quanto possano apparire coincidenti, sono molto differenti. Per risolvere un problema di disuguaglianza bisogna spesso agire anche sulla classe media, o aggredire il reddito dei più ricchi. Per contrastare la povertà invece serve concentrare alcune risorse su una particolare fetta della popolazione, senza necessariamente doversi interessare delle altre. Non comprendere la reale natura del problema porterebbe i politici, una volta al governo, a mettere in piedi politiche che non coglierebbero il punto, dilapidando spesa pubblica. Per ora si è partiti con il piede sbagliato.

Di più su questi argomenti: