La diseguaglianza non è così diseguale

Carlo Stagnaro

Qualche dato per andare oltre le narrazioni apocalittiche e semplicistiche. L'Italia non è l'America

La notizia sulla diseguaglianza è fortemente esagerata. La copertina dell’Economist di questa settimana dà finalmente voce alle perplessità della comunità scientifica, sempre più insofferente per le narrazioni apocalittiche e semplicistiche che vanno per la maggiore. Insomma, il monumentale “Capital in the Twenty-First Century” di Thomas Piketty potrebbe essere altrettanto fuorviante dell’illustre volume del 1867 da cui mutua il nome (anche al netto dei numerosi errori nei dati, che forse Karl Marx non si sarebbe preso la libertà di disseminare).

 

Il settimanale britannico identifica quattro pilastri nella retorica della diseguaglianza: la sproporzionata crescita dei redditi del “top 1 per cento”; la stagnazione del ceto medio; lo spostamento dal lavoro al capitale; la progressiva concentrazione della ricchezza. Questi fenomeni vengono variamente attribuiti alla globalizzazione, al capitalismo, al “liberismo senza diritti”, al cambio tecnologico, o a qualche combinazione tra di essi. C’è solo un problema: nulla di tutto ciò sta accadendo in modo così netto, le cause non sono ovvie e in ogni caso ogni paese fa storia a sé. 

 

 

Il problema principale è che la forza retorica con cui Piketty e altri hanno diffuso il verbo sulla diseguaglianza ha trasformato in “verità risapute” delle mere ipotesi, che dipendono – tra l’altro – da un’evidenza frammentaria e discussa. Per esempio, che i ricchi siano diventati sempre più ricchi è vero quasi solo negli Stati Uniti. E perfino negli Usa, la realtà è complessa: è almeno dai primi anni Duemila che il trend di aumento per il top 1 per cento si è esaurito. Allo stesso modo, le reali condizioni del ceto medio sono tutte da capire: le stime sull’andamento del reddito mediano nel periodo 1979-2014 variano da un incremento dell’8 al 51 per cento. Perfino la faccenda del derby tra capitale e lavoro va messa in prospettiva: da un lato, i redditi da capitale sono in parte in pancia dei fondi pensione, il cui tasso di copertura è passato in America dal 4 al 50 per cento tra il 1960 e il 2015. Dall’altro, lo spostamento verso il capitale dipende perlopiù dai rendimenti immobiliari: i dati sembrano scagionare il mercato, mentre sul banco degli imputati andrebbe chiamata la regolamentazione edilizia. Infine, la concentrazione della ricchezza è difficili da misurare e interpretare. Per esempio, poiché il risparmio è fortemente correlato con l’età, si scopre che i paesi con maggiore efficacia redistributiva, come la Svezia, sono spesso segnati da profonde diseguaglianze di patrimoni.

 

La presa d’atto che gli esperti sono ancora divisi sulle cause, l’entità e le conseguenze delle disparità sociali non è priva di implicazioni. Intanto, per così dire, tutto ciò che sapete è falso (o, più correttamente, è non necessariamente vero).

 

La cautela nell’invocare la diseguaglianza come alibi per prendere scelte di politica economica dovrebbe dunque essere massima. Ne segue che alcune tra le proposte di riforma più radicali – come la patrimoniale elaborata dagli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman per la senatrice democratica e possibile candidata alla Casa Bianca Elizabeth Warren – sono la proverbiale soluzione per un problema che potrebbe non esistere (o essere assai meno grave). Oltretutto, come ha notato l’economista Wojciech Kopczuk, assumendo un rendimento del capitale del 3 per cento, una patrimoniale del 3-6 per cento corrisponde a un’aliquota del 103-206 per cento sui redditi da esso generati. Questa non è progressività, è espropriazione.

 

C’è un ulteriore e fondamentale aspetto: il dibattito sulla diseguaglianza, nei termini in cui si è sviluppato, può avere una parziale attinenza con la realtà americana, ma quanto più un paese ha caratteristiche diverse, tanto meno esso può essere mutuato.

 

L’Italia rappresenta, in tal senso, un esempio paradigmatico: noi abbiamo storicamente una diseguaglianza relativamente bassa prima delle imposte (segno di un’economia arretrata), ma relativamente alta dopo l’intervento dello stato (che dimostra una pessima efficacia redistributiva del mix tra prelievo fiscale e spesa sociale). Tant’è che, negli anni della crisi, il ceto medio ha retto meglio sia dei ricchi sia dei poveri, i quali invece hanno visto considerevolmente peggiorare la propria condizione. La stagnazione della produttività è l’altra faccia della scarsa mobilità sociale: pertanto, non dovremmo aggredire la ricchezza, ma le rendite. Non ci servono tasse per redistribuire i capitali, ma riforme per redistribuire le opportunità. Vulimm’ fa’ gli americani ma simm’ nat’ in Italy.

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