Proteste a La Paz (foto LaPresse)

C'è una rivolta contro la rivolta. Cosa viene dopo il fallimento del populismo?

L’analisi, la domanda e la risposta del saggista David Brooks

Milano. Vi sarete sicuramente accorti, scrive sul New York Times David Brooks, che il mondo “is on fire”, ci sono proteste in ogni parte del globo, “la più grande e più ampia rivolta civile dal 1989, una storia dieci volte più grande dell’impeachment del presidente Donald Trump, pure se le due cose sono correlate”. Brooks cita lo slogan potente delle manifestazioni in Iran – “morte a Khamenei” – e le proteste in difesa dei diritti democratici “a Hong Kong, Varsavia, Budapest, Istanbul, Mosca. Il popolo è furioso in Pakistan, Indonesia, Arabia Saudita e ha rovesciato il governo in Bolivia e in Libano”. Secondo il saggista e giornalista americano di formazione conservatrice, i semi di queste proteste risalgono proprio a trent’anni fa, al “fulgore del capitalismo liberal-democratico, del fondamentalismo del libero mercato, della fine della storia”, come disse Francis Fukuyama (che si è già ampiamente rimangiato la formula). Oggi tutti riconoscono quel che allora “molti di noi” già intuivano e non apprezzavano – le diseguaglianze che ne sono derivate, la paura che l’identità nazionale venga strappata via dal cosmopolitismo – e soprattutto sanno che c’è stato un “contraccolpo” molto forte. Le forme di questo backlash sono diverse: nell’Europa centrale e dell’est ci sono gli uomini forti, in America Latina c’è stata la “Pink Tide” dei populisti di sinistra, nell’Anglosfera c’è il nazionalismo etnico di Trump e della Brexit, in medio oriente il fondamentalismo islamico, in Cina l’autoritarismo, in India il nazionalismo induista. Il populismo è ancora in ascesa, basti pensare ai gilet gialli in Francia o alle proteste in Cile, dice Brooks, ma c’è anche una nuova consapevolezza: “I populisti al governo non portano alcun miglioramento”, ed è per questo che siamo di fronte a “una rivolta contro la rivolta, la middle class delle città che si rivolta contro i populisti”.

 

Il cuore del problema resta economico, ma si è aggiunta la corruzione – Brooks cita di seguito l’esempio di Trump e dell’Ukrainegate, del Libano, della Bolivia – e ora basta pochissimo per far esplodere la rabbia: “I regimi autoritari/populisti stanno perdendo legittimità”. Il mondo “è instabile e pronto a scoppiare. Il messaggio complessivo – dice Brooks trovando una chiave per interpretare questa rivolta contro la rivolta – è che le carenze della globalizzazione liberale sono reali, ma che l’alternativa populista non funziona”. La maggior parte di queste proteste è senza leader definiti, quindi è difficile aspettarsi da questo fermento una nuova agenda politica, ma la domanda da porsi è: “E adesso? Cosa viene dopo il fallimento del populismo?”. Brooks ha una proposta per i leader mondiali non populisti: “Bisogna scrivere un nuovo contratto sociale che conceda sia alle élite cittadine istruite sia alle classi lavoratrici delle periferie un pezzo di quello che vogliono di più. Le classi lavoratrici che hanno sostenuto i populisti hanno bisogno di mezzi per prosperare nell’economia moderna e della consapevolezza di essere rispettati quando contribuiscono al progetto nazionale. Le élite istruite vogliono che le loro libertà democratiche siano protette e vogliono vivere in società plurali etnicamente diversificate”. Il contratto sociale deve tenere conto di queste esigenze: chi riesce a scriverlo e proporlo, conclude Brooks, “vince il futuro”.

Di più su questi argomenti: