Manifestazioni in Algeria (foto LaPresse)

Kepel ci spiega le proteste contro l'oligarchia che per decenni ha comprato la pace sociale

Rolla Scolari

Dall’Iran all’Algeria. “Teheran non ha più i soldi per finanziare l’esportazione della sua rivoluzione”, ci dice l’orientalista. L’indebolimento del potere del petrolio e il “corridoio” interrotto

Le rivolte attraversano la mezzaluna sciita da settimane. Si rinnova ogni giorno la protesta contro il governo a Baghdad. Rifiutano compromessi i manifestanti in Libano, che da ottobre sfidano i tabù di una società indebolita da decenni di confessionalismo. Sono almeno settemila, secondo le Nazioni Unite, gli arresti nelle recenti manifestazioni contro il regime in Iran, dove i morti negli scontri con le forze dell’ordine sarebbero oltre 200. Ed è proprio l’Iran sciita il filo rosso che in parte unisce le rivolte regionali innescate da diseguaglianza sociale e crisi economiche e sfociate in un malessere politico che ha il regime degli ayatollah e la sua influenza regionale come obiettivo.

 

Accade proprio quando l’Iran sembrava emergere vincitore nel conflitto siriano. Attraverso questa guerra, “Teheran aveva realizzato il suo sogno”, dice al Foglio Gilles Kepel, orientalista e politologo francese. Alle sue spalle, nel suo studio all’École normale supérieure di Parigi, c’è una cartina del mondo conosciuto all’epoca dei Romani, sulla scrivania edizioni commentate del Corano. Il sogno di Teheran, ci dice, era quello di “costruire un corridoio territoriale dalla Repubblica islamica verso il sud di Beirut”, roccaforte di Hezbollah, partito politico e milizia, passando per l’Iraq e la Siria, in cui è stato ristrutturato il potere di Bashar el Assad. L’importanza di questo corridoio per l’Iran sta “nella capacità di minacciare militarmente Israele, per prossimità, oggi anche attraverso le basi create in Siria”. Nell’ottica del regime questo permetterebbe di scongiurare bombardamenti degli Stati Uniti, inquieti per le ambigue velleità nucleari degli ayatollah. “L’Iran ha così una specie di assicurazione. Per il paese è una questione di sorveglianza e implica che tutta la zona sia controllata: l’area è diventata uno spazio coloniale”.

 

In questo spazio vivono importanti comunità sciite. In Libano e in Iraq l’influenza di Teheran sui rispettivi governi è capillare. E non è un caso che in questa nuova stagione di rivolte, accanto agli slogan contro politici locali, le folle gridino contro le interferenze iraniane. Nello stesso Iran, i manifestanti, stufi di vedere i soldi pubblici investiti in costose operazioni militari all’estero, gettano la propria frustrazione contro Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, gruppi armati in Iraq o a Gaza, alleati del loro governo. E così che le proteste a Beirut e Baghdad “mettono in causa profondamente il sistema di sopravvivenza della Repubblica islamica, in un momento in cui è provato dalle sanzioni internazionali dopo il ritiro di Donald Trump l’anno scorso dall'accordo sul nucleare”, spiega Kepel, che dedica l'ultimo libro, “Uscire dal Caos”, edito da Raffaello Cortina, alle crisi regionali emerse dopo le rivolte arabe del 2011.

 

Nell’area d’influenza della Repubblica islamica, nata dalla rivoluzione del 1979, qualcosa sta cambiando: l’Iran non ha più i mezzi per finanziare i propri alleati nella regione. Il peso delle sanzioni si fa sentire fuori dai confini e in casa, dove la popolazione accusa le autorità di inettitudine nella gestione degli affari economici. Anche in medio oriente è l’epoca delle diseguaglianze e dei sollevamenti dettati dal malcontento sociale che mette in questione la politica. “La rivolta in Iran non è nata come politica – ricorda Kepel, che fa un paragone tutto europeo – E’ una rivolta in stile gilets jaunes cominciata alla stessa maniera, con proteste sull’aumento della benzina”. Gli iraniani vogliono che il governo si occupi delle buche in strada, delle infrastrutture, non dei finanziamenti a Hezbollah. C’è un problema di collocamento delle risorse: “L’Iran e il Libano di Hezbollah non hanno più abbastanza denaro per finanziare le loro clientele e comperare la pace sociale, perché da una parte non possono vendere il petrolio a causa delle sanzioni, dall’altra il poco che vendono ha il prezzo basso del mercato internazionale. L’Iran non ha più i soldi per finanziare l’esportazione della sua rivoluzione”. Gli resta però ancora una risorsa, spiega l’orientalista: “Saccheggiare il petrolio dell’Iraq, che non è sotto sanzioni e di cui controlla le reti di potere”.

 

Le proteste che attraversano la regione colpiscono al cuore la legittimità del regime iraniano. E raccontano la fine di un’epoca: quella in cui il greggio in medio oriente e Nord Africa era arma politica. C’era una tempo in cui il prezzo del petrolio si faceva a Riad. Oggi si fa a Houston o in Alaska, con l’estrazione degli idrocarburi di scisto, che hanno reso gli Stati Uniti autosufficienti per quanto riguarda il consumo energetico. “Se l’era del petrolio come arma è alla fine – spiega Kepel – finisce anche l’uso della religione per giustificare la rendita petrolifera. L’esempio più importante è l’Arabia Saudita, il regno che ha creato il wahhabismo e diffuso il salafismo, e in cui oggi il principe ereditario Mohammed bin Salaman riduce il potere del clero per creare un altro tipo di legittimità: una legittimità modernista (non significa democratica), che non sia più la narrazione wahhabita”.

 

L’indebolimento del potere del petrolio ci porta fino in Algeria, dove milioni di persone scendono in piazza da nove mesi contro un antico regime. Il voto presidenziale di pochi giorni fa, sostenuto da un regime precario, è stato boicottato dal movimento di contestazione: il rais eletto, Abdelmadjid Tebboune, è il nuovo obiettivo di una piazza che non ha mai smesso di protestare. Anche qui, come nel Levante, il clan al potere è rimasto in vita per decenni attraverso lo sfruttamento del denaro di petrolio e gas, utilizzato per soffocare il malcontento sociale e le aspirazioni politiche di libertà. Finché i soldi del greggio non sono più stati sufficienti. L’Algeria prova come qui e altrove nella regione la sfida sia oggi “trovare un modello sociale alternativo” a quello di un’oligarchia religiosa o militare che per decenni ha comperato la pace sociale attraverso la ridistribuzione della rendita.

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