Baghdad - Foto di Daniele Raineri

L'antidoto ai sermoni jihadisti

Daniele Raineri

In piazza a Baghdad i nuovi iracheni vogliono un governo che non salvi le loro anime ma dia posti di lavoro

Baghdad, dal nostro inviato. Immaginate Matteo Salvini che abbraccia Carola Rackete e le chiede di dimenticare tutto quello che è stato detto finora. Immaginate la Rackete ricambiare l’abbraccio e dire che in fondo entrambi, lei e Salvini, hanno a cuore il problema immigrazione e che assieme potranno fare molto meglio. Moltiplicate questa scena per mille volte e sarete ancora lontani dalla potenza della riconciliazione che si vede in questi giorni in Iraq nelle strade dove si manifesta e a piazza Tahrir, nel centro della capitale Baghdad. C’è un cartello che dice: “Madre nostra, i figli di Anbar hanno udito il tuo pianto” e si riferisce alle madri dei quarantacinque manifestanti di Nassiriya uccisi in un giorno solo alla fine di novembre. Ora, al Anbar è la provincia che è stata la culla dello Stato islamico e fino a tre anni fa uno sciita di Nassiriya che fosse passato per le strade di Anbar sarebbe finito scannato o peggio. C’è un video minore dello Stato islamico che mostra i fanatici mentre bruciano vivi quattro sciiti appesi a catene e non è che un esempio fra tanti. C’era una guerra religiosa che andava avanti perlomeno dal 2006. La stessa cosa valeva per Baghdad, dove lo Stato islamico (sunnita) mandava camion-bomba nei mercati dei quartieri sciiti e gli squadroni della morte sciiti ammazzavano sunniti a caso ai posti di blocco (guardavano il nome sui documenti e se suonava sunnita – come “Omar” – il malcapitato finiva in un fosso con un colpo alla testa).

  

Di queste fratture sanguinosissime tra sciiti e sunniti e cristiani e curdi e turcomanni l’ondata di giovani di piazza Tahrir non vuole più sentire parlare. Fanno una vita da mendicanti in un paese che ha le seconde riserve petrolifere della regione dopo l’Arabia Saudita. La disoccupazione giovanile è altissima mentre alcuni, pochi clan di affaristi legati alla politica conducono una vita lussuosa in alcune enclave ristrette – nel centro della capitale il prezzo degli alberghi è pari a quello del centro di Roma. Il sistema di assistenza alla popolazione, fatto di sussidi alimentari, è umiliante (visto in questi giorni: chi apre i pacchi di riso prima li annusa, perché spesso sono marci). Per avere buoni ospedali e una buona istruzione bisogna andare all’estero, come fanno i figli dei privilegiati.

  

Foto di Daniele Raineri da Baghdad


   

I partiti e il Parlamento prendono istruzioni dall’Iran, che in questi anni ha imposto la propria influenza con tutta una serie di metodi che vanno dagli investimenti finanziari alla creazione di milizie armate che ormai sono diventate potentissime. In un paese dove la maggior parte della popolazione è ancora sotto ai 25 anni e si sente già fregata, c’è un tentativo di piazza di cambiare tutto. Dicono al Foglio “non importa se sono sciita o se sono sunnita, sono iracheno e sono qui perché voglio un governo nuovo, elezioni e leggi diverse”. E così siamo arrivati a: “Madre nostra”.

   

Perché importa a noi? Perché se temiamo che il futuro ci riservi altre ondate di fanatismo e di guerra religiosa sempre più vicine all’Europa e magari dentro all’Europa, allora un movimento iracheno antifanatico che tra i suoi slogan dice che “lo stato deve darci buoni servizi, non deve occuparsi di farci arrivare in paradiso” è una cosa importante. Come le donne che in Iran rifiutano l’imposizione del velo, così i giovani iracheni in piazza da due mesi che dicono di voler respingere il solito schema delle divisioni fratricide spingono la regione verso un orizzonte più umano e decente e sul lungo termine stabile. Questo è l’antidoto contro i sermoni di Abu Bakr al Baghdadi.

    

I manifestanti però hanno due problemi enormi. Il primo sono le milizie – che qui chiamano “il terzo partito”, perché non sono il governo ma stanno con il governo e però si possono permettere violenze molto più efferate proprio perché non c’è un legame ufficiale. Ali, un dottore che ha un inglese perfetto perché ha passato molto tempo a Dubai fra amici americani, teme “che le milizie faranno un massacro per sciogliere il sit-in a piazza Tahrir e stroncare questa protesta. Io amo questa protesta, ma mi chiedo se ha davvero una chance di vincere”.

  


Foto di Daniele Raineri da Baghdad


  

Il secondo problema è la possibilità che la protesta degeneri e divori se stessa. Due giorni fa a piazza Wathba, a mezzo chilometro da Tahrir, un giovane si è messo a sparare dalla finestra di casa sua per allontanare i manifestanti. Non erano persone di Baghdad, erano delle tribù del sud che si sono unite alla protesta da qualche settimana. Hanno cominciato a dire che aveva ucciso sette persone, a tirare molotov contro la casa, hanno preso lo sparatore, l’hanno ucciso, gli hanno legato i piedi con una corda, hanno trascinato il corpo in strada e lo hanno appeso in mutande a testa in giù a un semaforo. Pochi minuti, ma sotto c’era una folla con i telefonini a fare foto. Da Tahrir hanno chiamato per interrompere la scena perché hanno realizzato quanto fosse controproducente: se cominci con le scene da piazzale Loreto le possibilità di negoziati svaniscono e la simpatia da fuori anche. Poi hanno inscenato un ricordo “delle sette vittime” che però non c’erano e hanno posato i bossoli su una larga pozza di sangue sul marciapiede con rosari e scritte. Ma non è stato possibile sapere dove fossero i “funerali”. E ieri con il Foglio erano evasivi: era il figlio di un trafficante di droga, era senz’altro sotto l’effetto di qualche droga, c’è molta esasperazione per i manifestanti morti (non meno di quattrocento a questo punto, ma forse sono di più). Un disastro.

 

Nelle strade sotto il controllo di chi protesta cominciano ad apparire cartelli con la faccia di Moqtada al Sadr, il predicatore che ha molta influenza sui giovani sciiti. La piazza vuole essere irachena e non settaria, ma ieri sul tetto del palazzo del ristorante turco che fa da centro simbolico della protesta qualcuno ha piazzato un bandierone che dice “Ya Hussein”, uno slogan religioso sciita. Mescolati alla folla girano, disarmati, gli uomini della Sayara al Salam, la compagnia della pace, con i berretti blu. Sono gli uomini di Sadr, che per ora si sono presi il ruolo di custodi benevolenti della protesta. Male, perché assomiglia molto a un tentativo di infiltrazione. Se il vecchio schema si impadronisce della piazza, rovinerà tutto e questa storia rischia di diventare un regolamento di conti fra fazioni sciite, più o meno in relazione con l’Iran. Proprio quello di cui il paese non avrebbe bisogno. E addio madre nostra che piangevi.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)