Come funziona la repressione a Baghdad
In Iraq le milizie filoiraniane mappano le proteste e uccidono poco alla volta per non dare nell’occhio
Baghdad, dal nostro inviato. Gli uomini sono arrivati poco prima delle otto di sera a bordo di veicoli comuni, sono entrati tra le colonne in cemento armato del parcheggio di al Sinak quando era buio. Il parcheggio è un edificio di sei piani che in queste settimane è usato dai manifestanti di Baghdad per dormire, ci sono tende e coperte e sacchi a pelo dappertutto. Quando qualche ora dopo la notizia dell’attacco è finita sui social media è sembrata un’operazione mordi e fuggi, un drive by shooting: le automobili arrivano, gli occupanti sparano sulla folla e poi accelerano via. Invece era stata un’operazione molto più lenta e pianificata per distruggere il morale dei manifestanti.
Tutti parlano del “Terzo Partito”, milizie armate che non sono le forze di sicurezza, ma si occupano della repressione: sono leali all’Iran
Gli uomini hanno catturato tutti quelli che hanno trovato dentro al garage, hanno gettato bottiglie molotov su per una delle due rampe di scale che portano al tetto – per bloccare con le fiamme una via di fuga – e sono saliti dall’altra rampa. Sul tetto hanno legato le mani dei manifestanti, poi ad alcuni hanno sparato, altri li hanno accoltellati. Hanno bruciato le tende usate per dormire. Un manifestante aveva i capelli tinti di biondo, glieli hanno tagliati per punirlo di essere “gay”. Cantavano slogan sciiti – la corrente dell’islam (anche) delle milizie filoiraniane in Iraq. Poi hanno trascinato alcuni dei cadaveri fino al parapetto e li hanno gettati di sotto in strada.
I morti sono almeno venti ma non è possibile dare un numero definitivo. Dal tetto hanno anche sparato verso un posto di blocco della polizia in una via accanto e hanno ucciso quattro agenti. Alla fine dell’operazione hanno caricato i manifestanti catturati – un’ottantina – ai piani inferiori su alcuni autobus e li hanno portati via. A quel punto erano le quattro del mattino. Per uscire sono passati da piazza Khulani, a trecento metri da piazza Tahrir, hanno sparato alla cieca dai finestrini delle auto e si sono dileguati in modo misterioso in una parte di Baghdad che da settimane è stata trasformata in una gigantesca zona pedonale perché sia le forze di sicurezza sia i manifestanti hanno alzato barricate in tutte le vie d’accesso.
E ora viene la parte migliore, quella che è impossibile da comprendere fuori dall’Iraq. Dei manifestanti sequestrati dagli stragisti quella notte, alcuni sono ancora dispersi ma molti sono rispuntati fuori qualche giorno dopo. Alcuni di loro hanno detto al Foglio di essere stati prima interrogati dai loro rapitori e poi spostati sempre con i bus in un altro luogo (nella parte est della capitale) e passati ai servizi di sicurezza iracheni, che li hanno di nuovo interrogati e si sono presi i loro telefoni. Immaginate quanto ci mette un team specializzato di tecnici a ricostruire la vita di una persona a partire dal telefono: i suoi contatti, le sue chat, le sue foto. Ti impadronisci di un centinaio di telefoni e puoi mappare una parte delle proteste. Chi fa cosa, chi ha un ruolo di leader, chi fa parte del comitato centrale, come funziona tutto.
Immaginate quanto ci mette un team specializzato a ricostruire la vita di un manifestante a partire dal telefono: contatti, chat, foto
Quando parli con i testimoni che quella notte del massacro di al Sinak c’erano – e che ti fanno vedere le ferite da coltello – li senti usare questa strana espressione: il “Terzo Partito”. Indica l’assortimento di milizie armate che in Iraq vive di vita propria. Non sono il governo, non sono le forze di sicurezza, ma si occupano lo stesso della repressione e possono commettere violenze che il governo e la polizia invece non possono, almeno in via ufficiale. Stanno con il governo ma non rispondono al governo perché la loro lealtà politica è verso l’Iran – da cui arrivano i soldi che le tengono in vita.
Così i miliziani passano con la loro colonna di veicoli attraverso posti di blocco che dovrebbero essere chiusi, ammazzano torturano e rapiscono manifestanti e poi invece che sparire nel nulla vanno dalle forze di sicurezza – che da loro riceve i prigionieri e i loro telefoni, quando invece dovrebbe arrestarli. Quando si dice che in Iraq le milizie filoiraniane spadroneggiano, s’intende questo. Ed è contro questa situazione che i manifestanti di Tahrir protestano, con chance di successo piuttosto basse.
Un murale dipinto dai manifestanti a Baghdad (foto Daniele Raineri)
Il nome della milizia ritenuta responsabile del massacro di al Sinak è Kataib Hezbollah (ricorda qualcosa? Il gruppo filoiraniano in Libano. Venerdì sei dicembre avevano anche una banda gialla sulla testa come i libanesi) che la scorsa settimana ha lanciato cinque razzi contro una base di militari stranieri dentro l’aeroporto internazionale di Baghdad ma ha colpito una caserma irachena vicina. La notte del raid i soldati nelle vie vicine al garage hanno aperto i posti di blocco per aiutare i manifestanti che scappavano dagli stragisti. E’ un triangolo ambiguo, manifestanti – esercito – milizie, in cui ciascuno tenta di dominare ma allo stesso tempo non vuole che gli altri due in risposta si coalizzino.
Così i manifestanti iracheni non temono in questa fase gli scontri con le forze di sicurezza ufficiali, che ormai sono un rito serale che si consuma a botte di lacrimogeni, ma temono queste operazioni speciali fatte dalle milizie per terrorizzare la piazza. Come dormi sapendo che un miliziano potrebbe trovarti e ucciderti nel tuo sacco a pelo?
La regia del generale iraniano Suleimani è nitida, a partire dal punto uno del programma: il controllo delle informazioni
Un manifestante mentre parla al Foglio tira fuori dai pantaloni della tuta un coltello a serramanico “per gli estremi rimedi”, ma l’impostazione di tutta la protesta per ora è rispondere alla violenza con “selmiya”. E’ uno slogan di una parola sola che vuol dire “veniamo in pace, vogliamo risolvere la questione da gente civile a gente civile”. Da una parte i coltelli e i fucili automatici, dall’altra “selmiya”. Il giorno che le milizie decidessero di fregarsene delle conseguenze sul piano internazionale e di aggredire la piazza a Baghdad, sarebbe un massacro. Che andrebbe ad aggiungersi ai più di quattrocento morti che ci sono già stati.
Per ora invece che attaccare in massa i manifestanti qualcuno ha deciso di rapirli o ucciderli uno per uno, in modo che non ci siano troppe reazioni. Non passa giorno senza che arrivi la notizia di un attivista ucciso a sorpresa a colpi d’arma da fuoco oppure rapito. Le persone in piazza non sono tutte uguali. Ci sono quelle che hanno più carisma o più capacità organizzativa o più fondi a disposizione o più coraggio o sono comunque determinate a resistere per davvero “tutto il tempo che ci vuole, noi non ce ne andremo”, come dicono ai giornalisti. Se prendi di mira quelle, il resto della massa perde consistenza, sbanda, si dissolve. Il piano è disarticolare le proteste e colpire in modo selettivo i manifestanti che sono più cruciali per la loro continuazione.
Chi ha deciso questa tattica del massacro di piazza in piccole rate che fanno meno notizia è lo stesso generale che ha creato le milizie. Non è iracheno, è iraniano e per chi si occupa di medio oriente è una vecchia conoscenza: Qassem Suleimani, capo della sezione Al Quds delle Guardie della rivoluzione, quindi della sezione che si occupa delle operazioni all’estero. Suleimani da due mesi continua a fare la spola tra Teheran e Baghdad per convincere i vertici politici iracheni a non dimettersi e a sopportare l’onda delle proteste. Suleimani li vuole convincere di essere in grado di spegnerle e in effetti ha un curriculum solido. E’ grazie a lui che in Siria il presidente Bashar el Assad è ancora al suo posto – anche se la guerra civile ha ucciso mezzo milione di persone. Suleimani prima creò le milizie assadiste con volontari locali e stranieri, poi quando si accorse che non bastavano volò di persona a Mosca a convincere il presidente russo Vladimir Putin a intervenire. In Iran i suoi colleghi generali delle Guardie della rivoluzione si occupano a tempo pieno di reprimere con la violenza le proteste degli iraniani. Non meno di duecento morti all’ultimo giro, durato una settimana a metà novembre.
La piazza per ora risponde alla violenza con “selmiya”. E’ uno slogan di una parola sola che vuol dire “veniamo in pace”
Non ci sono prove che Suleimani dia gli ordini – non sono cose che si fanno alla luce del sole. Ma la regia è così nitida che è impossibile non vederla, a partire dal punto uno del programma, che è il controllo delle informazioni. Nella prima settimana di proteste i media iracheni avevano preso in simpatia la piazza pacifica. Sono arrivate squadre delle forze speciali a chiudere gli studi televisivi e rompere le loro apparecchiature. A guardare bene i video di sorveglianza si scopre che non sono davvero squadre delle forze speciali irachene ma qualcuno che fa finta di essere le forze speciali irachene. Ci sono errori nelle uniformi e nei veicoli, ma tanto il risultato ormai è stato ottenuto. I media sono stati messi in riga. Venerdì trasmettevano il comizio trionfale delle milizie a piazza al Firdaus, convocato a un chilometro soltanto da piazza Tahrir con lo scopo di intimidire i manifestanti. Solita roba: folla che marcia sulla bandiera americana e che impicca fantocci con fattezze saudite, come se quelli che buttavano giù cadaveri dal parcheggio di al Sinak non fossero stati i loro (magari erano persino in piazza).
Contro Suleimani e il suo apparato di repressione ben rodato, i manifestanti iracheni hanno scelto di marciare con le braccia alzate e molto candore. Il coraggio, la passione e l’apertura mentale che hanno dimostrato in questi mesi (non tutti: ricordiamo il linciaggio di un innocente a piazza Wathba) sono ammirabili. Ma l’ammirazione è un sentimento e può poco contro il freddo dei prossimi due mesi e nel caso peggiore contro gli squadroni della morte.