I “Kaffeehaus”, i caffè viennesi, sono tra i protagonisti dell’Europa raccontata da Figes. Nella foto, “Im Café Griensteidl”, di Reinhold Völkel (1896)

La globalizzazione europea

Giulio Meotti

Orlando Figes racconta quando siamo diventati un’unica civiltà. Ma ci consegna anche il naufragio

“I confini nazionali furono attraversati dalle ferrovie. Una nuova èra per la cultura europea era iniziata. Gli artisti e le loro opere potevano ora spostarsi molto più facilmente. Berlioz avrebbe viaggiato sulla linea da Parigi a Bruxelles mentre si recava in Russia. Le ferrovie sarebbero state utilizzate da orchestre e cori, compagnie d’opera e teatro, mostre artistiche itineranti e scrittori in tour. Si sarebbe aperto un mercato internazionale per riproduzioni di massa di dipinti, libri e spartiti. Sarebbe iniziata l’èra moderna dei viaggi all’estero, consentendo agli europei, in numero sempre maggiore, di riconoscere i propri punti in comune. Si permetteva loro di scoprire in queste opere d’arte il proprio ‘europeismo’, i valori e le idee che condividevano con altre persone in Europa”.

  

“Gli stessi libri venivano letti, gli stessi dipinti riprodotti, la stessa musica suonata e le stesse opere eseguite nei teatri d’Europa”

Il nuovo, monumentale lavoro dello storico Orlando Figes, “The Europeans” (in uscita per Mondadori), è un grande tributo alla globalizzazione culturale europea nel momento forse massimo dell’odio di sé, del relativismo storiografico e di un cupio dissolvi che ormai ci impedisce di rivendicare quanto abbiamo fatto ed esportato. Ma Figes scrive anche un necrologio, perché oggi la globalizzazione è americana, cinese e indiana, non più europea. Figes non si rifugia nel distacco dello storico (o dell’entomologo): la consapevolezza che egli ha della “grandezza” della civiltà europea lo spinge a vivere dolorosamente la sua “decadenza”, come se l’Europa non fosse più un centro di potere, non irradiasse più, non avesse più coscienza, come se una civiltà sul morire si esprimesse come non aveva mai fatto prima, come se scoprisse se stessa, la sua essenza, la sua destinazione e grandezza solo quando il suo corpo aveva già cessato di appartenerle.

  

“Gli stessi libri venivano letti in tutto il continente, gli stessi dipinti riprodotti, la stessa musica suonata a casa o nelle sale da concerto e le stesse opere eseguite in tutti i principali teatri dell’Europa”. È la storia di come il “canone europeo, che costituisce la base dell’alta cultura oggi non solo in Europa ma in tutto il mondo in cui si stabilirono gli europei – fu istituito nell’èra ferroviaria”. La grande storia di Figes, docente al Birkbeck College di Londra, è la nuova relazione tra arte e capitalismo, la creazione di un “mercato unico nella cultura”, una sorta di “fine della storia” di Fukuyama con ottant’anni di anticipo. La sua piccola storia è il ménage à trois attorno a cui ruota il libro: la cantante spagnola Pauline Viardot, venerata da Chopin, Liszt, Gounod, Wagner e Brahms, nonché amica di scrittori come Dickens e Sand; il suo critico d’arte e traduttore francese Louis Viardot; e il suo amante e romanziere russo Ivan Turgenev. I tre passano da Parigi a San Pietroburgo, e poi da Londra a Baden-Baden. E si muovono attorno a due nascenti miti europei: quello sovranazionale, relativo alla funzione della monarchia danubiana; e quello libertino-edonistico, che fece di Parigi la città più gaia d’Europa. “Erano cosmopoliti, membri di un’élite culturale europea, capaci di vivere ovunque sul suolo europeo, a condizione che non compromettessero i propri princìpi democratici, senza perdere la propria nazionalità. Hanno trovato la loro casa nella ‘civiltà europea’. La famosa frase di Edmund Burke, secondo cui ‘nessun europeo può essere totalmente in esilio in qualsiasi parte dell’Europa’, potrebbe essere stata pensata per loro”.

   

Scrive Figes che questa cultura europea “è stata costruita sul cristianesimo, la letteratura classica e la filosofia, ma fu solo nel XIX secolo che una cultura di massa relativamente integrata fu in grado di svilupparsi in tutto il continente”. Il libro racconta questa storia. E una società in cui, nello spazio di una sola generazione, l’innovazione umana fa quasi collassare le distanze geografiche, consentendo a individui e a informazioni di viaggiare per il mondo con una rapidità e facilità senza precedenti. “Una cultura internazionale svanita allo scoppio della Prima Guerra mondiale”.

  

Ma il tempo del cosmopolitismo era come già passato e, tolta la maschera della cupidigia e della cultura, era arrivato il tempo che l’Europa indossasse quella della disperazione e dell’identità, come in un grande gioco di seduzione: il tramonto dell’occidente di Spengler, i fasti di Roth, gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus, l’esilio suicida di Zweig, la ribellione delle masse di Ortega y Gasset, l’uomo senza qualità di Musil, il collasso della cultura di Jaspers, il mondo senz’anima di Simmel, il nichilismo di Heidegger, e poi ancora Klimt e Kokoschka, Schnitzler, Altenberg e von Hofmannsthal. per citare soltanto alcuni grandi testimoni del crollo. Questa sensibilità europea omaggiata da Figes era alimentata da un’ideologia di fraternità liberale e di idealismo progressista che affondava le radici nell’Illuminismo, negli scritti di Goethe e nelle riforme napoleoniche, opposte al nazionalismo che si instaurò quando la Germania unita di Bismarck sconvolse l’equilibrio di potere dopo la guerra franco-prussiana.

  

Quella di Figes è una storia internazionale che “guarda l’Europa nel suo insieme, non divisa in stati nazionali o zone geografiche”

Una storia internazionale che “guarda l’Europa nel suo insieme, non divisa in stati nazionali o zone geografiche” e che considera “l’arte come la forza unificante tra le nazioni”. Nel tempo della Brexit, della crisi europea e della fiammata identitaria, la rilevanza di “Europeans” è palese. Il capitalismo, e l’innovazione tecnologica, hanno fatto l’Europa. Secondo Figes, questa “rivoluzione nel movimento” rappresentata dalla ferrovia, che Karl Marx definì “annichilimento dello spazio attraverso il tempo”, ha promosso un grande senso di identità collettiva in tutto il continente: “Le ferrovie hanno permesso alle persone in tutta Europa di vedersi come ‘europei’ in modi che non avevano mai fatto prima”.

  

Nel 1913 i due terzi del commercio mondiale erano in mano a paesi europei. L’arte divenne ricca di correnti e di capolavori, merito di quella classe borghese che negli anni precedenti al disastro bellico avrebbe poi identificato il momento più felice della sua storia. L’Europa dei primi del Novecento, scrive Figes, è simile soltanto a un altro momento fondamentale della storia occidentale: il Rinascimento umanista dal XIV al XVI secolo.

  

Emergono la fotografia, la pittura, le grandi esposizioni, la mostra d’arte, il romanzo realista, il feuilleton sui giornali, la libreria e l’opera. Ma non solo. “The Europeans” racconta anche l’ascesa della biblioteca pubblica, il caffè-concerto, il casinò, la vacanza termale, l’industria dei viaggi, la guida turistica, i musei, le celebrità, il pianoforte come intrattenimento, la luce a gas e i tubi metallici che impedivano l’essiccazione della vernice, permettendo agli artisti di dipingere all’aria aperta. Oggi, voli a basso costo significano Angkor Wat e Machu Picchu. Nel XIX secolo significavano Parigi, Venezia, Firenze, Dresda e le montagne svizzere “disseminate di bottiglie rotte e frammenti del Daily Telegraph”.

  

È come se, all’apice della creatività, fosse già all’opera una tendenza nello spirito europeo a farsi terra di nessuno

Era una cultura museificata, non si sa bene se per vivere nel ricordo o se invece per naufragarvi. Per gli europeisti, il lavoro di Figes arriverà sicuramente come una grande vivificazione di uno stile di vita splendido eppure svanito. “Il mio obiettivo è quello di avvicinarmi all’Europa come a uno spazio di trasferimenti culturali, traduzioni e scambi che attraversano i confini nazionali”, scrive Figes. “Come disse una volta Kenneth Clark, quasi tutti i grandi progressi della civiltà – e senza dubbio i brillanti successi della cultura europea nel XIX secolo – sono stati durante i periodi del massimo internazionalismo, quando persone, idee e creazioni artistiche circolavano liberamente tra le nazioni”. La citazione di Clark è interessante. È il grande storico della cultura che nel 1969 sulla Bbc nella serie “Civilization” omaggiò la Ravenna bizantina, le Ebridi celtiche, la Aquisgrana di Carlo Magno, i castelli della Loira, i palazzi di Firenze, l’Abbazia di Cluny e la Cappella Sistina. Un anno fa, la Bbc ha trasmesso una nuova versione del suo programma, con tre presentatori, la “s” al plurale di civiltà e una impalcatura tutta all’insegna del multiculturalismo.

  

 

Figes è esemplare nel catturare come tanti fermi immagine questa superpotenza culturale europea, come la borghesia che si diverte a Baden-Baden, la città immersa nei vapori delle terme e sfiorata dai gorghi del Reno, la città dove non succede niente, la città dove ferve un’attività delicata e redditizia ovvero preservare il riposo e la lietezza degli avventori, la città dove tutta la gente dava l’impressione di essere ricca sfondata e anche i loro bassotti avevano l’aria di essere benestanti, la città invischiata nella gelatina del passato patrizio. C’era tutta l’Europa ritratta da Figes a Baden-Baden, col turismo terapeutico, gli scrittori, gli artisti, i musicisti, il pendolarismo, i weekend tutto compreso, i grand hotel ambasciate-ombra, sorta di set della “Montagna incantata” di Thomas Mann come esempio di segreta compromissione con la decadenza borghese. Ne sono un esempio l’altro protagonista dell’Europa di Figes, i “Kaffeehaus”, i caffè viennesi, a guardare la gente che passa, i giornali a portata di mano, i piattini con le fette di torta, dove spirava già l’inquieto autunno europeo, quella che Hermann Broch chiamava “gioiosa apocalisse”.

  

È come se, all’apice della creatività, fosse già all’opera una tendenza nello spirito europeo a farsi terra di nessuno

Lo riconosce anche Figes, parlando dell’autore de “Il mondo di ieri”: “L’opera di Zweig era pervasa da questo nostalgico desiderio per le certezze dell’Europa del XIX secolo, non da ultimo perché è finita alla vigilia del suicidio dello scrittore, mentre ‘l’illusione di una cultura europea’ crollava di nuovo”. È dunque fragile e paradossale questa bellissima Europa unita che esce dalle pagine di Figes. Come se il suo itinerario culturale attraverso il Vecchio continente si configurasse già come un inventario di memorie che stavano per sbiadire. Come se l’essenza dell’Europa, alla fine, non si identificasse che con la nostalgia. Come se fosse già all’opera una tendenza nello spirito europeo a farsi terra di nessuno. Come se l’Europa fosse già come costretta a prendere congedo da tutte le appartenenze, da tutte le rassicuranti, e angoscianti, “radici”. Come se quest’ansia di fraternità liberale contenesse già in sé i rischi di un conflitto, di una gigantesca Weimar, di un declino proprio di tutte le epoche sfavillanti, di una generazione che, già in nuce, coltivava l’autodistruzione. Rilke scriverà in una lettera alla principessa Marie von Thurn und Taxis: “Qualsiasi cosa succeda, il peggio è che quell’innocenza di vita in cui siamo cresciuti non tornerà mai più per nessuno di noi”.

  

Figes conclude così il saggio. “Pauline è morta il 18 maggio 1910. Si è addormentata su una poltrona, senza svegliarsi, alle tre del mattino. ‘Norma’ è stata l’unica parola che ha detto: il nome di uno dei suoi ruoli più famosi. Il funerale ebbe luogo due giorni dopo nella Basilica di Sainte-Clotilde a Parigi. La Pie Jesu di Fauré è stata cantata da un soprano accompagnato dall’organo Cavaillé-Coll, per il quale la chiesa è famosa. Era una cerimonia religiosa, condotta secondo i riti della chiesa cattolica romana, un fatto che avrebbe scioccato il marito di Pauline, un ateo irriducibile. Ma la lapide sopra i loro due corpi, che si trovano fianco a fianco nel cimitero di Montmartre, è priva di qualsiasi segno cristiano”.

   

Il mondo non di ieri, ma di domani. Una vertigine.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.