Illustrazione di Vincino

L'America è morta

Trump ha dato il colpo di grazia a un paese che ha preparato il terreno all’autoritarismo coltivando utopie progressiste. Andrew Sullivan a briglia sciolta sugli orrori dei populisti di destra e gli errori dei democratici di sinistra. Con una postilla sulla chiesa, che può dire qualcosa di originale

Seduto in veranda, Andrew Sullivan gira la telecamera dell’iPhone per mostrare il posto “terribile” in cui va ogni estate a “far finta di lavorare”. Le onde dell’oceano, depotenziate dalla diga naturale di Cape Cod, si frangono gentili sulla spiaggia assolata di Provincetown, mentre il vento gagliardo entra nel microfono, facendolo gracchiare. Da qualche parte sotto la sua casa estiva, nel 1620 ha attraccato la Mayflower, e qualche settimana più tardi i Padri pellegrini si sono spostati poco più a sud per fondare il primo insediamento, Plymouth, chiamato come la città dell’Inghilterra da cui erano partiti. Oggi Provincetown è famosa per essere l’epicentro della gay culture, l’avamposto ultraprogressista del progressista Massachusetts, e in città i negozi di articoli in pelle e lattice attirano più visitatori del monumento che celebra l’epopea puritana. Se soltanto i coloni avessero previsto tutto questo libertinaggio sulle loro rive.

   

  

Questo strano intellettuale conservatore educato a Oxford e ad Harvard si batteva per il matrimonio gay quando non era di moda

Sullivan indossa una maglietta con il simbolo della California e la bandiera arcobaleno, che a questo punto non è una rivendicazione orgogliosa ma uno stato di fatto. Questo strano intellettuale conservatore educato a Oxford e poi ad Harvard, dove ha scritto una tesi di dottorato su Michael Oakeshott, si batteva per il matrimonio gay quando non era di moda, metteva online annunci in cerca di sesso non protetto con altri uomini, preferibilmente sieropositivi come lui, ha festeggiato la conquista della green card quando gli Stati Uniti hanno tolto il divieto di immigrazione per chi risultava positivo al test dell’Hiv, si è sposato con un uomo prima della Obergfell v. Hodges, ha iniziato a fumare marijuana quotidianamente nel 2001, è un avvocato delle sostanze allucinogene e ha scrollato le spalle quando gli hanno fatto notare che forse non era nella posizione migliore per puntare il dito contro Bill Clinton per i suoi “comportamenti incauti” nello Studio Ovale. Cattolico praticante britannico, di famiglia irlandese, è la dimostrazione, per formula inversa, che è vero ciò che il teologo Stanley Hauerwas dice degli atei americani: sono noiosi perché il dio di cui parlano non è abbastanza interessante per essere negato. A conti fatti, significa che il dio americano non è nemmeno abbastanza interessante per essere creduto. E’ stato un pioniere del blog con il suo Daily Dish e poi è stato un pioniere dell’abbandono del blog quando, al grido di “sono un essere umano prima che uno scrittore”, ha lasciato nel 2015 la sua creatura digitale che nel frattempo aveva collezionato 30 mila abbonati a pagamento.

         

Era triste, estenuato, disabituato ad assorbire e articolare pensieri più complicati di un tweet o di un breve post; ora che legge libri difficili, ha tempo di meditarli e scrive con tutta calma lunghi saggi ragionati il per il New York Magazine è tornato di buonumore. Perciò fa impressione, sullo sfondo sciabordante del mare di Provincetown in una gloriosa giornata di luglio, sentirlo pronunciare con voce allegra e grave insieme una frase lapidaria: “La repubblica americana non sta morendo: è già morta”. Donald Trump ha drogato il linguaggio pubblico con il ricorso costante all’iperbole e al parossismo, ma per Sullivan la morte dell’America non è un modo di dire: la democrazia americana, con il suo tratto accogliente, messianico, multiculturale, individualista, religioso, con la sua libertà onnipresente, la ricerca della felicità garantita per via costituzionale e le certezze solide dei contrappesi istituzionali e della rule of law, è stata “rimpiazzata da una concezione tribale” che è un tradimento della sua origine. Dentro i termini di questa concezione, democratici e repubblicani hanno perso parallelamente la bussola: i primi hanno inseguito i fantasmi del politicamente corretto e della identity politics, i secondi hanno trovato in Trump un eroe goffo e autoritario a misura di forgotten man. Com’è inevitabile, la conversazione parte dal presidente.

   

  

Siamo intrappolati nell’analisi, costretti a guardare un circo che continuamente cambia e ci distrae. Possibile trovare una sintesi?

“Credo di averla trovata. Ne ho scritto nove mesi prima dell’elezione di Trump, in un saggio che diceva che la democrazia americana non è mai stata così matura per la tirannia. Per spiegarlo ho usato argomenti antichi che hanno ancora molto da dire, quelli usati da Platone e Aristotele per descrivere la decadenza di una democrazia, anzi di una sua versione estrema e degenerata che crede di fondarsi e sostenersi soltanto su se stessa. Platone parlava del deterioramento della democrazia come esito di un processo in cui l’uomo democratico crede che sia tutto permesso, che ogni valore sia uguale, che ogni sentimento sia ammissibile e di uguale valore. Chiamava ‘bestia multicolore’ l’uomo democratico dominato dagli appetiti, dai piaceri, dalle voglie, dalle pulsioni edonistiche che non hanno una regola e dai desideri che non hanno una gerarchia. In questo sistema, che è soltanto apparentemente evoluto, ogni autorità è vista con sospetto. Questo sospetto determina una decadenza, una specie di fase anarchica in cui i cittadini non credono in niente che non siano le proprie sregolate passioni.

   


Le colpe della società aperta. La identity politics ha preso in ostaggio i democratici. La retorica dell’accoglienza e un linguaggio che non ha più niente da dire alle persone. Che infatti votano Trump


  

E’ in questo terreno che crescono figure autoritarie che a loro volta non credono in niente ma riescono a manipolare la volontà del popolo identificandosi con esso. Non è la descrizione esatta di quello che è successo con Trump? Certo, non mi sfuggono le differenze con la situazione descritta dagli antichi. Dicevano che questo processo si concludeva sempre con una guerra, uno spargimento di sangue, mentre in questo caso la situazione è tendenzialmente pacifica. Non siamo di fronte a un golpe nazista ma a una forma di autoritarismo postmoderna che si realizza all’interno di una sovrastruttura democratica. Trump non ha formalmente toccato le strutture democratiche, ma ha rovesciato tutto ciò in cui il Partito repubblicano crede, ha svuotato di significato i concetti base della democrazia, ha trasformato il Congresso nella Duma com’era dopo la rivoluzione, un organo che notifica la volontà del presidente, ha rimpiazzato il dibattito politico con l’adesione cieca a una setta, un culto della leadership. Prendiamo la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte suprema. Tutti si interrogano sulla sua posizione sull’aborto o il matrimonio gay, ma la cosa che a me sembra più importante è la l’affermazione di un potere esecutivo smisurato che in questi anni ha sempre ribadito: è esattamente il motivo per cui Trump lo ha scelto, altro che originalismo. Il presidente è estremamente efficace nel consolidare e accrescere il proprio culto”.

 

Una forma postmoderna di autoritarismo. “E’ difficile esagerare il fallimento delle élite negli ultimi decenni. Abbiamo vissuto come se fossimo arrivati alla fine della storia, come se tutti i problemi del mondo potessero essere risolti con il linguaggio limitato della democrazia liberale”

Eppure nella versione degli antichi la degenerazione nella tirannia era necessaria, inevitabile, era un tratto tragicamente costitutivo della democrazia, non un suo tradimento. “Ed è in un certo senso così anche oggi – procede Sullivan – non credo che Trump abbia ucciso la democrazia americana, credo che sia venuto a dare il colpo di grazia a un sistema che ha sofferto a lungo per le ferite autoinflitte a causa dell’arroganza di leader che hanno venduto illusioni assurde. E’ difficile esagerare il fallimento delle élite negli ultimi decenni, e io non mi assolvo da questa colpa. Abbiamo vissuto come se fossimo arrivati alla fine della storia, come se tutti i problemi del mondo potessero essere risolti con il linguaggio limitato della democrazia liberale, abbiamo esagerato la capacità dell’economia di soddisfare le persone, abbiamo creduto che l’avanzare inarrestabile della tecnologia, del benessere, della ricchezza avrebbero spazzato via ogni residuo del vecchio mondo fatto di identità distinte, abbiamo clamorosamente sottovalutato l’effetto dirompente della globalizzazione e ci siamo invece compiaciuti di tutte le nostre conquiste, che abbiamo proiettato nel futuro. Siamo diventati gli idoli di noi stessi. Dentro questo contesto di apparente liberazione sembrava che, a livello individuale, l’emotivismo fosse l’atteggiamento che andava promosso come naturalmente adeguato a questi tempi di liberazione dalle ideologie, dalle autorità. Guarda che cosa ha prodotto l’emotivismo: aggressività, narcisismo, ritorno delle tribù, identity politics, sospetto nei confronti dell’altro, incapacità di mettersi insieme per un progetto comune. Ma questa emotività fintamente ingenua ha prodotto, ad esempio, anche l’immigrazione di massa che poi ha fomentato il ritorno del nazionalismo, sulla base di un’infatuazione surreale per il mito del multiculturalismo. A un certo punto l’idea stessa di confine era diventata tossica, inaccettabile. Trump è terrificante, è un folle, è un manipolatore egocentrico di abissale ignoranza, ma la crisi che sta cavalcando è nata molto prima di lui”.

  

Ed è su queste parole che si intuisce un giudizio devastante sulla classe dirigente democratica degli anni Novanta. “Purtroppo anche io ho fatto parte di quella schiera, ma è così: Clinton e la classe dirigente che ha guidato questa corsa progressista verso il futuro hanno responsabilità enormi sullo stato dell’America di oggi. Se allarghiamo il discorso anche all’Europa credo che Tony Blair abbia responsabilità ancora più grandi nell’avere dato una certa impronta all’Inghilterra e nell’avere sottovalutato la reazione di un popolo insoddisfatto dalle promesse della democrazia liberale. Le persone, deluse dalle prediche dogmatiche sul progressismo, hanno infine abbracciato il nazionalismo, il populismo o gli ego esagerati di leader senza nessuna idea, ed eccoci qui a deprecare Trump – che, lasciamelo dire un’altra volta, è un fanatico orrendo e spaventoso – senza avere il coraggio di criticare la classe dirigente che ha creato le condizioni per il suo successo. L’immigrazione è il tema in cui questa dinamica è illustrata perfettamente”.

 

“Le persone, deluse dalle prediche dogmatiche sul progressismo, hanno infine abbracciato il nazionalismo, il populismo o gli ego esagerati di leader senza nessuna idea. Dagli anni 90 circola l’idea che ‘i confini sono razzisti’, un’assurdità diventata il mainstream della classe dirigente democratica”

Cosa questo significhi esattamente, Sullivan lo spiega facendo notare che gli attuali movimenti anti immigrazione nascono in seno al rifiuto di distinguere fra immigrazione legale e clandestina. “Trump ha vinto le elezioni sull’immigrazione, così come le hanno vinte Salvini e il Movimento 5 stelle in Italia. Un altro modo di dire la stessa cosa è: i democratici hanno perso le elezioni sull’immigrazione, rifiutandosi categoricamente di fare qualunque distinzione fra immigrazione legale e illegale. Alla convention di Hillary Clinton nessuno, nemmeno uno di quelli che è salito sul palco, ha osato citare l’immigrazione in termini che non fossero quelli della retorica scema dei confini aperti. Pensiamoci bene: non c’è nulla di scandaloso nel parlare di immigrazione illegale e nel proporre politiche migratorie equilibrate, si è sempre fatto. I democratici stessi lo hanno sempre fatto. Invece ora non si può più. Chi osa dire che forse conviene, per ragioni economiche e culturali, limitare l’accesso degli stranieri in un paese è immediatamente un fascista pericoloso, un troglodita, un essere disumano. Dagli anni Novanta circola l’idea che ‘i confini sono razzisti’, un’assurdità fuori dal mondo che oggi è diventata il mainstream della classe dirigente democratica. Così il dibattito sull’immigrazione al di fuori del becero linguaggio populista ha perso di legittimità. Quando ho scritto che la cosa migliore per i democratici sarebbe stata concedere a Trump il suo cazzo di muro, e scusa il francese, e adottare politiche moderatamente restrittive sull’immigrazione, sono stato sommerso da un’ondata di troll, lettere di odio, minacce di ogni tipo. Tutto molto civile e progressista, insomma. Ma la questione, dal punto di vista elettorale, è semplice: finché i democratici non avranno il coraggio di parlare di immigrazione e di abbracciare politiche migratorie restrittive continueranno a perdere le elezioni ovunque. E i Trump di tutto il mondo continueranno a vincere”.

  

Il Partito democratico in America si sta però muovendo nella direzione opposta. Molti leggono, ad esempio, la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez contro un deputato dell’establishment di New York come l’ennesimo segno della radicalizzazione del partito. “La identity politics ha preso in ostaggio il partito democratico, si parla soltanto di minoranze oppresse, di gender, di identità irripetibili che vanno difese da ogni critica, tanto che chi osa dare giudizi, fare distinzioni, viene immediatamente bollato come una specie di nazista. In questa stessa logica, le retorica dell’accoglienza senza un minimo di realismo, senza nessun riferimento alla legge, è diventato l’unico linguaggio che la sinistra è in grado di utilizzare, ma si tratta del solito linguaggio venato di utopismo e politicamente corretto che non ha più niente da dire alle persone. E infatti poi la gente vota Trump, si getta cioè nelle braccia di un leader autoritario. Quello di cui non ci rendiamo conto è che è la cosiddetta ‘società aperta’ che ha creato le condizioni per il suo successo”.

 

Si può fare lo stesso discorso per la sinistra europea? “In Europa il problema è anche più grave. Il 14 per cento dei cittadini americani è nato fuori dagli Stati Uniti, come me, e questo è fondamentalmente un paese di immigrati. In Europa ci sono invece identità e tradizioni secolari, e i fallimenti dei vari modelli di integrazione e gli esperimenti sul multiculturalismo sono sotto gli occhi di tutti. Prendere la strada dell’accoglienza indiscriminata è una follia, e ha anche il difetto di rafforzare le forze populiste e xenofobe. La situazione economica non permette di immaginare realisticamente un futuro in grado di sostenere politiche di apertura di fronte a flussi migratori di proporzioni epocali. Il punto non è guardare all’emergenza di un momento, e in questo momento ad esempio nel Mediterraneo i numeri ci dicono che non siamo di fronte a un picco emergenziale, ma alle tendenze di lungo periodo”.

 


I social network, strumenti perfetti per amplificare l’emotivismo e il tribalismo, passioni dominanti del nostro tempo. Pinker, il profeta dell’ottimismo, e Deneen, quello dell’apocalisse. Trump, immorale surrogato di una divinità da reality show. Le opportunità della chiesa


  

C’è qualche leader in Europa che si salva? “I leader democratici europei sono messi talmente male che, a conti fatti, il Labour di Jeremy Corbyn è l’unico che offre un modello per opporsi in modo efficace a nazionalismo e populismo di destra. E a sua volta Theresa May, con i suoi enormi problemi, sembra in grado di navigare in un frangente difficilissimo della storia britannica. Per il resto il panorama è desolante: Merkel è finita, Macron è un disastro e sul Partito democratico italiano direi che possiamo sorvolare”.

   

In Europa “Merkel è finita, Macron è un disastro: esprime le stesse idee della classe dirigente che con i suoi fallimenti ha aperto la strada a questa fase di autoritarismo. Detesto l’alternativa dei Trump e dei Salvini, ma il suo europeismo sorridente e vuoto non è parte della soluzione, è parte del problema”

Macron addirittura un disastro? “Esprime le stesse idee della classe dirigente che con i suoi fallimenti ha aperto la strada a questa fase di autoritarismo. La sua proposta consiste nel curare i mali del presente con gli stessi mali che ci hanno portato qui. Detesto l’alternativa dei Trump e dei Salvini, ma il suo europeismo sorridente e vuoto non è parte della soluzione, è parte del problema”.

   

Anche il movimento #metoo è il prodotto della politica dell’identità imperante? “Certo: nella dittatura delle emozioni e delle tribù la distruzione del patriarcato non può che essere in cima all’agenda. La cosa ironica, e assai rivelatrice, è che la battaglia femminista è scoppiata nel momento in cui le donne stanno ottenendo conquiste importanti nella società civile, nella politica, nel business. In occidente non ci sono mai state tante donne in posizioni di governo, a capo di aziende, le donne non sono mai state tanto ricche e istruite, sono ormai in maggioranza nelle ammissioni nelle grandi università dell’élite americana. Il #metoo però se ne frega di questi enormi cambiamenti incrementali della condizione femminile, perché in realtà vuole affermare altro: cioè che ogni relazione fra un uomo e una donna è intrinsecamente segnata da un abuso. Ogni rapporto è una violenza. Questo ha messo gli uomini sulla difensiva, anzi li ha convinti a trincerarsi nei confini della propria identità assediata. E’ il motivo per cui personaggi come Jordan Peterson, che sfidano con arguzia e buoni argomenti i dogmi dell’uguaglianza sessuale, hanno un grande successo. Non ci si deve stupire se poi l’uomo bianco millennial è la demografia elettorale di riferimento di Trump e dei suoi cugini in tutto l’occidente”.

    

 

Sullivan è stato in prima linea, anzi un precursore della battaglia per i diritti degli omosessuali e del matrimonio gay. Qual è la differenza? “Difendere i diritti degli omosessuali non significa mettere in discussione il concetto di genere. Sono gay ma non penso che la differenza fra uomo e donna sia una costruzione sociale o un’invenzione dei difensori del potere patriarcale da buttare via, credo sia radicata nella realtà biologica. Non è ironico che in questo periodo in cui un certo pensiero progressista brandisce una concezione neopositivista, facendo un idolo dei dati e delle verità scientifiche contro gli zotici che credono ai complotti, gli ideologi che si credono più all’avanguardia basino la loro concezione del gender sulla negazione di evidenze scientifiche e in nome di una autodeterminazione puramente emotiva?”.

    

Rimaniamo in tema di delusioni. Si moltiplicano le critiche di ogni tipo agli eccessi della tecnologia e al potere della Silicon Valley. L’egemonia dei colossi tecnologici è sotto accusa da ogni parte, ma molti formulano oggi critiche di tipo esistenziale alla vita digitale. Quando Sullivan ha deciso di uscire dal ritmo ossessivo del blog e dei social ha dato ragioni che oggi sembrano molto diffuse. Tirando le somme, com’è la vita a bassa intensità digitale? “Non ripeterò mai abbastanza quanto il mio blog, nato negli anni Novanta, è stato importante per diffondere idee in cui credo e per la mia carriera. Ciò detto, quando ho deciso di lasciare ho scritto che la mia esistenza digitale era diventata una ‘forma di non vita’, una dimensione soffocante che a lungo mi ha impedito di coltivare tutte le cose che danno significato alla vita. Per la foga di sezionare, commentare, condividere e competere era diventato difficile godere delle relazioni, dell’amicizia, di un quadro o di un bel tramonto d’estate. Oggi sta emergendo più chiaramente che i social ci rendono più ostili e cattivi, assecondano il peggio di noi invece di valorizzare il meglio. Sono, in sintesi, gli strumenti perfetti per amplificare l’emotivismo e il tribalismo che sono le passioni dominanti del nostro tempo. Sbaglia chi dice che Trump ha piegato Twitter ai suoi scopi beceri e populisti: Twitter era già piegato in quella direzione”.

    

Sembra incredibile che ci sia stato un tempo, assai recente, in cui si pensava che i social fossero gli alleati naturali del dibattito democratico e della società aperta. Il padre di tutti gli esempi è la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008. “Quella tecnologica – dice Sullivan – è stata una delle illusioni di quel periodo, e la si può leggere quasi come una parabola delle speranze tradite del pensiero democratico. Obama è una persona splendida, un gentiluomo colto ed equilibrato, un leader serio e aggraziato che probabilmente non ci meritavamo, ma il suo dramma è che è stato messianizzato, è stato trasformato in un idolo prima ancora di fare qualcosa. A conti fatti era anche un presidente freddo, distaccato, e lo dico in senso positivo, cioè c’era in lui il realismo necessario per governare, ma i suoi fan hanno fatto di lui un’icona troppo presto. Insieme a Obama sono stati santificati anche tutti gli strumenti che sembravano gli alleati naturali del cosiddetto lato giusto della storia, espressione terribile di cui ci siamo presto pentiti tutti quanti”.

  

Qualche tempo fa il giornalista ha messo a confronto due modi di raccontare la condizione contemporanea radicalmente differenti. Uno è quello di Steven Pinker, che con la forza dei numeri e dei dati spiega che la società progredisce costantemente verso un avvenire illuminato; l’altro è quello di Patrick Deneen, che nel suo discusso libro dice invece che la società liberale è nel mezzo di un processo di autodistruzione. Da una parte il profeta dell’ottimismo, dall’altra quello dell’apocalisse. La conclusione è che “entrambi hanno ragione, ma Deneen è più profondo”. Cosa significa?

  

“La battaglia femminista è scoppiata nel momento in cui le donne stanno ottenendo conquiste importanti nella società civile, nella politica, nel business. Sono gay ma non penso che la differenza fra uomo e donna sia una costruzione sociale da buttare via, credo sia radicata nella realtà biologica”

“Gli indici socioeconomici, le statistiche sul benessere, sul crimine, sulla mortalità e così via ci restituiscono un’immagine positiva del mondo di cui, invece, ci lamentiamo. E’ tutto vero: quando uno legge le tesi di Pinker trova ben poco da obiettare. Il problema è che non tutta l’esperienza umana è giudicabile con gli indici socioeconomici, c’è un livello più profondo che ha a che fare con il significato del vivere. Deneen raggiunge questa profondità esistenziale che invece Pinker, nel suo piatto positivismo, ignora completamente. Siamo nel mezzo di una crisi di significato alla quale il sistema del pensiero liberale non sa dare una risposta adeguata. Pinker non esce dal perimetro della modernità, Deneen sì: questa è la differenza”.

    

Qualcuno dice che questa epoca è segnata dal ritorno di una pulsione religiosa. “Credo sia davvero così – dice Sullivan – perché senza significato non si può vivere. Tutta la modernità si è basata sull’idea della liberazione dai dogmi e dalle autorità religiose, ma l’uomo padrone di se stesso si è mostrato deludente. La crisi che stiamo attraversando ha chiaramente un aspetto religioso, e se guardiamo bene anche Trump è parte di questo schema: in mancanza di altro, le persone sole, frustrate, abbandonate, deluse, spaesate si sono rivolte all’immorale surrogato di una divinità da reality show, credendo di trovare una risposta. Anche il dramma degli oppiacei, una piaga bestiale di questo tempo, praticamente un suicidio di massa, rivela in modo distruttivo il disperato desiderio di trovare una risposta”.

  

Papa Francesco e la chiesa cattolica hanno qualcosa da dire in questo contesto? “Penso che la chiesa abbia di fronte a sé una grandissima opportunità per comunicare alle persone che c’è qualcosa per cui vale la pena vivere. Il Papa, io credo, ha capito questa opportunità storica e sta cercando di comunicare agli uomini una speranza, e poco importa se poi il suo messaggio viene spesso ridotto alla sua dimensione politica. Da cattolico, dico che la chiesa ha una proposta valida per gli uomini del nostro tempo, una proposta alternativa al tribalismo dei populisti e all’individualismo insipido della mentalità liberale”.