La cover di New Republic dell’edizione dell’11 luglio del 1988. Il 7 novembre scorso il magazine, oggi di proprietà di Chris Hughes, ha festeggiato i suoi cent’anni di vita

Il bello di essere liberali

Paola Peduzzi

I cent’anni di New Republic, ovvero la sopravvivenza delle idee e delle opinioni nonostante le frodi, i numeri calanti, i direttori e l’ossessione per i “contenitori”.

“In questo periodo di sfasci e rovine, l’unico potere che può salvare, che può guarire, che può fortificare è un pensiero chiaro e intelligente”.
Dalla lettera che gli editor di New Republic scrissero ai primi abbonati della rivista, nel 1915.

 

Willard Straight e Dorothy Whitney erano in luna di miele quando iniziarono ad appassionarsi a un libro che avevano messo in valigia, un libro non facile, un libro non noto, ma i due innamorati se lo leggevano l’un l’altro ad alta voce, dolci e amorevoli. Era l’inizio del Novecento, East Coast americana, lui era un orfano che dalla campagna dello stato di New York era diventato l’uomo di JP Morgan in Cina. Anche i genitori di lei erano morti giovani, e così Dorothy si era trovata a gestire un’immensa fortuna con un fare che le cronache di allora definivano autonomo e filantropico. Erano idealisti e progressisti, trattavano la promessa che dava il titolo al saggio che li aveva rapiti come se fosse la loro. Il libro, “The promise of American Life”, era stato pubblicato nel 1909, ed era stato scritto da Herbert Croly, uno dei personaggi più misteriosi della filosofia politica americana: fino ai suoi 40 anni di lui non si sa quasi niente. Se non che era molto timido e pure un po’ depresso, che gli piaceva l’architettura, ma anche e soprattutto giocare a tennis e a bridge nella casa di campagna della sua famiglia, in New Hampshire. Suo padre, David, che amava i giornali e la politica e aveva un paio di baffi che gli scendevano giù fino alle spalle, lo portava a passeggiare a Central Park e gli parlava di Auguste Comte, uno dei fondatori del positivismo, e gli suggeriva di far suo quel pensiero. Herbert ascoltava ma non reagiva, aveva un che di irrisolto dentro che lo avrebbe portato a un collasso nervoso e a un conseguente viaggio in Europa. Ma dopo i quarant’anni, Herbert decise di dare un seguito alle lunghe camminate familiari, alla dedizione di suo padre e alla forza di quelle discussioni: scrisse “The promise”, che divenne uno dei saggi di teoria politica più famosi e influenti della storia americana, considerato la bibbia dell’èra progressista. Theodore Roosevelt, che era stato presidente dal 1901 al 1909, lesse “The promise” nel 1910, mentre era in Africa a fare un safari, lo elogiò pubblicamente e lo fece suo per lanciare la grande rivoluzione progressista con cui si candidò per un terzo mandato da indipendente alle elezioni del 1912.

 

Quando William e Dorothy tornarono dal viaggio di nozze, scrissero a Croly e lo invitarono a pranzo. Qualche mese dopo l’idea di un settimanale che portasse avanti idee progressiste ispirandosi al “new nationalism” che si rifaceva ad Alexander Hamilton era diventata un progetto concreto. Il 7 novembre del 1914 la Herbert Croly and Co. pubblicò il primo numero di The New Republic: costava 10 cents a copia, quattro dollari l’anno, ed ecco che cos’era, secondo quantro scrissero gli ideatori: “New Republic è un esperimento. E’ il tentativo di trovare un pubblico per un giornale di interpretazioni e opinioni. Molti pensano che un settimanale di questo tipo non abbia posto in America; che se un periodico vuole essere popolare deve prima di tutto intrattenere, e se vuole essere serio invece deve essere distaccato e selettivo. Eppure quando il progetto di New Republic è stato presentato ha ricevuto un benvenuto spontaneo in tutto il paese. C’erano differenze sulle teorie e sui programmi, ma tutti concordavano sul fatto che se New Republic fosse riuscito a illuminare i problemi della nazione e a trattarne le complessità con chiarezza, sarebbe stato utile a coloro che sentono le sfide del nostro tempo. New Republic è fondato sulla convinzione che questo sia possibile”.

 

“Tutto quel che ho fatto e scritto dopo aver lasciato New Republic, è una conseguenza di quel che ho imparato e conosciuto lì. Esser stato parte di quel progetto – e aver letto il magazine prima di arrivarci, durante, dopo, che è un modo per esserne sempre parte – è stato bello ed esasperante. New Republic scoppiettava. C’era un metodo nella follia, una tecnica nella tensione”.
Hendrik Hertzberg
direttore di New Republic
nel 1981-’85 e poi nel 1989-’92

 

L’ultimo numero di New Republic festeggia i cento anni del magazine. Gronda nostalgia da tutte le parti, racconta come si fa a essere liberali, a fare un giornale liberale e a sopravvivere – sopravvivere a tutto, ai direttori, ai proprietari, alla più grande frode della storia del giornalismo, al mondo che cambia, alle opinioni controverse, alla terminologia che si confonde, “liberal” e il suo doppio significato, alle sfide interne, ancor più a quelle esterne. E’ bello da piangere, questo numero di New Republic. Perché oggi l’ideale di allora – fare un magazine di opinioni, un magazine liberale, e avere successo – sembra perdersi nei rivoli di una crisi che, nel settore dei giornali, è un funerale permanente. Il settimanale che, ogni giovedì pomeriggio, veniva consegnato in 20 copie alla Casa Bianca di Ronald Reagan, perché era considerato imprescindibile anche e soprattutto dai conservatori; il settimanale che fu definito da Vanity Fair “il più intelligente, il più impudente, il più divertente e il più agile intellettualmente di tutta l’America” oggi non è nemmeno più un settimanale. Esce circa venti volte l’anno, la sua “circulation” era di poco più di 100 mila copie nel 2000 e ora è attorno alle 40 mila – il trend negativo non pare interrompersi. Chris Hughes, giovanissimo confondatore di Facebook con la passione per la carta, l’ha comprato nel 2012, l’ha ridisegnato e rilanciato, ma il suo obiettivo di “fix the journalism”, come disse in una famosa intervista, cominciando con “fix The New Republic” non è stato raggiunto. Non ancora, almeno.

 

“Quando New Republic ha messo a fuoco i dibattiti sui liberali, ha creato talvolta l’idea di un’incoerenza di fondo: un passo a sinistra qui, uno a destra là, un grazioso volteggio al centro. I critici gridano: ‘I conti non tornano!’. E la risposta più appropriata è: esatto. Se si esclude il lavoro di John Rawls, il liberalismo americano non ha riempito volumi di chiarezza filosofica. Ha prosperato in un magazine, che ha fornito l’approdo perfetto al liberalismo per esplorare se stesso – per arrivare a giudizi provvisori e poi rovesciarli, impegnandosi in un atto senza fine di ricerca ideologica, per esultare nella vitalità che deriva dal compito difficile dell’invenzione intellettuale”.
Franklin Foer
direttore di New Republic

 

Marty Peretz ha comprato New Republic nel 1974, con l’aiuto di sua moglie Anne (ci sono le donne che investono nei giornali, in questa storia, e i figli che li ereditano e poi un po’, pur non volendolo, li maltrattano, li spengono, quasi li uccidono, come capitò a Michael Straight, figlio dei due piccioncini in luna di miele. Anne oggi non è più la moglie di Marty: hanno divorziato nel 2009, lui la tradiva). E’ sotto la sua proprietà/direzione che il magazine ha conosciuto il maggior successo recente, rilanciando idee liberali e ragazzi, intellettuali, giovani – Micheal Kinsley aveva 28 anni quando fu chiamato, frequentava ancora la Law School ad Harvard; Andrew Sullivan aveva 28 anni quando fu chiamato, ed era un conservatore inglese; anche Peter Beinart aveva 28 anni quando arrivò nel 1996 alla direzione. Peretz amava litigare e battersi in nome delle sue idee, con chiunque capitasse, da quelli che nominava “direttori” – e ognuno di loro metteva le virgolette attorno al titolo, ché tanto decideva tutto Peretz – a quelli che, nel dibattito pubblico, lo contrastavano. Soprattutto su Israele, argomento intoccabile e allo stesso tempo meravigliosamente raccontato e spiegato, con un presupposto ideologico forte – “Il sostegno a Israele è un fatto profondo, l’espressione della migliore opinione che l’America ha di se stessa” – e una capacità di narrazione senza pari. Non ammetteva deroghe al principio, Peretz, essere liberali significa (anche) difendere il diritto dello stato ebraico di esistere, e più volte, sui temi di politica estera che fino ad allora erano rimasti ai margini, creò spaccature insanabili nella redazione (era anticomunista, a favore degli interventi umanitari contro i dittatori, compresa la campagna contro Saddam Hussein). Come quando, nel 1986, si schierò a favore dell’Amministrazione Reagan nella strategia di ribaltare il regime sandinista in Nicaragua, con ogni mezzo, a partire dall’aiuto militare per i Contra. “The case for the Contras” fu scritto da Charles Krauthammer, che aveva perso il posto come speechwriter del vicepresidente Walter Mondale ed era stato assunto da Peretz perché era liberale e pro Israele (oggi è uno tra i più noti intellettuali neoconservatori). Sullo stesso numero, la column principale del giornale – la famosa “TRB from Washington” – smontava gli argomenti a favore dei Contra: in quella specifica occasione era stata scritta dal direttore, Michael Kinsley. Cioè il direttore del giornale confuta le tesi del suo stesso giornale sul proprio giornale. E’ il liberalismo, bellezza, trovati qualcosa da metterti.

 

Peretz: “Vaffanculo, Rick” (Hertzberg, ndr).
Rick: “Vaffanculo tu, Marty”.
Porte sbattute. Pochi minuti dopo riappare Marty: “Mmm, mi sento molto meglio adesso”.

 

[**Video_box_2**]Steve Glass rappresenta la più grande frode del giornalismo americano, gli è stato dedicato anche un film, nel 2003, “Shattered Glass”. Nel 1998 il suo bluff fu scoperto: i suoi articoli pubblicati su New Republic (e su altre testate come Harper’s e Rolling Stone) erano per lo più falsi. Aveva inventato protagonisti, scene, episodi – compresa una fiera delle memorabilia di Monica Lewinsky – compilando taccuini con interviste mai avvenute a personaggi mai esistiti e registrando messaggi in segreteria falsi. Allora direttore di New Republic era Charles Lane che non amava particolarmente Glass e che, di fronte alla denuncia di un giornalista di Forbes che aveva cercato di recuperare le fonti di un articolo dal titolo “Hack Heaven” senza trovarne nessuna, decise di occuparsi direttamente della questione. Chiese a Glass di accompagnarlo nei posti in cui si ambientava l’articolo – scritto in prima persona: Glass riportava cose che aveva visto – compresa la sala conferenze in cui si era tenuto, secondo il racconto, uno degli incontri centrali dell’articolo (la sala conferenze era chiusa). Glass disse che le sue fonti gli avevano riferito fatti mai accaduti, continuò a ripetere che il fulcro del pezzo era vero, ma più il fact-checking andava avanti più tutto il mondo immaginario di Glass cadeva a pezzi. Hanna Rosin, sull’ultimo numero di New Republic, racconta la storia di Glass in prima persona, perché Steve era suo amico. Quando Lane iniziò la sua ricerca, Glass chiamò la Rosin e le chiese di difenderlo. Di lì a poco la Rosin si sarebbe occupata soltanto – per ordine del direttore – di rettificare quel che Glass aveva inventato, per mesi avrebbe ripercorso le allucinazioni del suo ex amico (che nel frattempo era scomparso, volatilizzato), tormentandosi con una domanda: perché mi chiese di proteggerlo, sapendo di aver inventato tutto e mettendo così a rischio la mia carriera per sempre? Nella primavera di quest’anno, la Rosin è andata a cercare Glass. Per raccontare la sua storia e per rispondere alla sua domanda (che nel frattempo si era ramificata in altri mille dubbi: come ho fatto a non accorgermi? Ma allora mio fratello potrebbe essere drogato? E la mia migliore amica mi odia?). Oggi Glass fa l’avvocato in California, vorrebbe essere ammesso nell’ordine degli avvocati ma la Corte Suprema gli ha  negato la richiesta: come si fa a dire se si è pentito e se è cambiato? Come si “riforma” un uomo che inventa tutto, ripetendo come giustificazione che ha sempre voluto assecondare le esigenze dei suoi interlocutori, non sa dire di no, non sa mettersi di traverso rispetto alle aspettative di chi ha di fronte (e allora s’inventa tutto)? Glass è un avvocato di successo, anche se non può andare in tribunale e non può firmare nulla, perché usa la sua storia come presentazione ai clienti. Si occupa di incidenti, e spesso le persone che si rivolgono all’avvocato in queste dispute non dicono – o non vogliono dire – la verità: ho un testimone, ma è la mia amante, come faccio a parlarne? Allora arriva Glass che racconta: facevo il giornalista, ho inventato la maggior parte delle storie che ho scritto, sono stato scoperto e cacciato, ma sono ancora qui. Di fronte a un bluff così, i piccoli segreti della vita normale sembrano niente (soprattutto se paragonati con i soldi dei rimborsi) e i clienti iniziano a confidarsi. Non c’è nessuno bravo come Glass a farli parlare, dicono i suoi colleghi. Lui non ne va fiero, oggi si scusa – si scusa in continuazione – e sa che il suo attuale boss ha ragione quando dice: “Non puoi avere indietro la tua verginità. Steve ha fatto una cosa così spettacolare e così disonesta su scala così grande che non potrà mai più liberarsene”. Anche la Rosin sa che non si può tornare indietro, ma parlando con Glass smette i panni dell’inquisitrice e assume quelli dell’ex amica. Ma quando lui le dice: “Mi sei mancata”, lei torna a domandarsi: sarà vero? O me lo dice per riconquistarmi? Con i tradimenti va così, ognuno di noi lo sa, ma il perdono è sempre una scelta, forse la più liberale. “E io ho deciso di farla”.

 

“Non dobbiamo essere un paese di intellettuali. Ma non dobbiamo nemmeno essere un paese di idioti”.
Leon Wieseltier, padre-padrone della sezione Cultura di New Republic da decenni, sezione considerata “il Kurdistan” della redazione.

 

Come si fa ad avere buone opinioni nella repubblica delle opinioni? Leon Wieseltier, uno degli intellettuali più fini dell’America di oggi, firma l’essay più bello del numero del centenario di New Republic (e non c’è da stupirsi). “La democrazia impone una responsabilità intellettuale straordinaria sui cittadini – scrive – Il nostro sistema viene determinato da quel che la gente pensa. Questo è allo stesso tempo elettrizzante e spaventoso”. Partendo da questa considerazione Wieseltier traccia il rapporto tra la democrazia e le opinioni, ricordando che il momento più alto della storia americana non fu la scrittura della Costituzione in sé, quanto il dibattito sulla sua ratifica. La ferocia delle proprie idee è essenziale nella nostra civiltà, la tolleranza è spesso indifferenza, è il motivo per cui la politica spesso si trasforma in un bazaar, in un gran mercato in cui si vende, non si pensa, in cui i “nonsense” prosperano perché siamo tutti troppo educati, troppo intellettualmente rispettabili per disturbarci troppo a controbattere. Wieseltier finisce con l’odiare tutto ciò che ha a che fare con la frenesia della rete e dell’informazione tutta e subito – “Oggi un uomo onesto non tollera più i media” – anche se il suo editore ha fondato Facebook, perché vive in quel mondo fatato che è il Kurdistan semiautonomo di un giornale liberale come New Republic. Ma soprattutto perché a differenza di molti altri che oggi si preoccupano del futuro delle opinioni in un mondo in cui ognuno, da qualsiasi parte, può dire la sua, bada a riconoscere prima il contenuto e poi il suo eventuale contenitore. “Content is contentless”, bisogna avere delle idee, degli argomenti, una visione. Saperli difenderi. Poi, non preoccupatevi, il contenitore si troverà.

 

“Hai un’idea? Possibilmente non tua”.
Dalla riunione di redazione
di un piccolo giornale d’opinione.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi