Consigli al governo per salvare il salvabile del reddito di cittadinanza

Maurizio Del Conte

Sarebbe opportuno spostare il baricentro della lotta alla povertà verso i servizi sociali. La vera emergenza resta quella di provvedere al sostegno e all'assistenza qualificata degli incapienti. Il lavoro è il passo successivo

Roma. Uno dei problemi che hanno minato la credibilità del reddito di cittadinanza è stato quello di costruirlo, e venderlo politicamente, come un grande programma nazionale di accompagnamento al lavoro dei disoccupati privi di reddito. Un programma che avrebbe dovuto essere pronto all’uso in brevissimo tempo, senza fare i conti con la realtà. Senza tenere conto, ad esempio, chela tanto citata riforma Hartz IV che si è spesso preso a paragone, in Germania è stata realizzata nell’arco di ben cinque anni. E dopo la fretta di mettere a punto il piano generale, il reddito di cittadinanza ha pagato un’altra fretta: quella, cioè, di scrollarsi di dosso l’immagine di un sussidio per nullafacenti, cedendo alla tentazione, di nuovo, di scorciatoie miracolose. E così ci si è illusi che con una app per tablet e un manipolo di navigator il problema di portare al lavoro i percettori del reddito sarebbe stato prontamente risolto.

  

Ma la realtà non fa sconti. Una rete di sportelli per il lavoro come quella italiana, in cui ognuno dei 554 centri per l’impiego sparsi nel territorio ha una storia e un’emergenza diversa da affrontare quotidianamente, non poteva essere rinnovata senza una profonda rifondazione dal basso, valorizzando le esperienze migliori. Si è obiettato che non si potevano aspettare anni per il completamento di un grande piano di ristrutturazione dei centri per l’impiego, perché il fenomeno della povertà doveva essere affrontato senza ulteriori indugi. Vero, ma proprio su questo punto si è consumato un altro grande equivoco del reddito di cittadinanza, che ha impropriamente ibridato il contrasto alla povertà con i navigator.

  

Esistevano precise elaborazioni statistiche dalle quali emergeva come, tra la platea potenziale di percettori del reddito, circa il 75 per cento non sarebbe stata in grado di essere avviata ad un percorso di inserimento lavorativo. Le famiglie e le persone che versano in povertà necessitano, in larga maggioranza, di servizi sociali in grado di risolvere problemi che impediscono di dedicarsi a qualsiasi attività di lavoro. La povertà non è solo questione di reddito: c’è una povertà che è connessa a disagi psichici, famigliari, a un contesto sociale sfavorevole e spesso a dipendenze patologiche. Queste dimensioni della povertà non devono e non possono essere affrontate dai servizi per l’impiego. Perciò sarebbe stato opportuno spostare il baricentro della lotta alla povertà verso i servizi sociali. La vera emergenza era e resta quella di provvedere al sostegno economico e alla assistenza qualificata degli incapienti. Il lavoro è il passo successivo.

  

Resta il fatto che, salvo ripensamenti nella prossima legge di bilancio, per i prossimi anni sono state destinate risorse straordinarie alle politiche attive, e si può fare ancora molto per correggere il tiro. Occorre, però, ripensare a un progetto di più largo respiro, finalizzato alla realizzazione di una architettura di servizi destinata a tutti i cittadini in cerca di lavoro, e non pensata solo per i percettori del reddito di cittadinanza. C’è bisogno di incrementare l’organico stabilmente incardinato nei centri per l’impiego, accelerando le procedure concorsuali e selezionando personale altamente qualificato e specializzato. In questa prospettiva si potrebbe avviare anche un piano di riconversione dei navigator, oggi costretti a svolgere attività diverse da quelle istituzionalmente di competenza regionale.

  

Ma, soprattutto, non si possono più tenere separati i servizi al lavoro dalla formazione professionale. La difficoltà delle nostre imprese a reperire le professionalità specialistiche di cui hanno bisogno non dipende dalla vischiosità del mercato del lavoro, ma dalla totale mancanza di programmazione della formazione professionale in funzione della domanda. Una programmazione che può essere efficace solo se si sviluppa una collaborazione strutturata tra gli enti di formazione e le imprese, che possono trovare un valido aiuto nelle loro associazioni di categoria.

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