La festa del M5s davanti alla Camera dopo l'approvazione del Def in Cdm (foto LaPresse)

Una riforma, uno scalpo

Salvatore Merlo

L’Europa critica? “Terroristi”. I tecnocrati non eseguono? “Riformiamo la legge Bassanini”. Le toghe deludono? “Riformiamo il Csm”. I giornali attaccano? “Aboliamo l’ordine dei giornalisti”. Storia di un metodo: la rappresaglia grillina

E’ come se provassero un enigmatico piacere, una vaga promessa di delizie non ancora scandagliate, nell’indicare un nemico cui scaraventare addosso, di volta in volta, l’annuncio di una nuova e diversa riforma. Luigi Di Maio e il Movimento cinque stelle, tra le tante invenzioni e tra i molteplici sforzi creativi con i quali da circa tre mesi dilettano gli osservatori delle vicende pubbliche italiane, possono infatti adesso vantare anche l’elaborazione di una nuova categoria d’interventi in cui il legislatore articola – o minaccia di articolare – il suo fastidio, il suo dispiacere e probabilmente anche il suo rancore e la sua voglia di vendetta, in commi furiosi e capitoli ringhianti. Nasce così la nuova figura giuridica della riforma intesa come rappresaglia.

 

“Ci sono molti tecnocrati, all’interno dei ministeri, che vanno contro il nostro indirizzo politico”, ha detto sabato scorso Luigi Di Maio, a Roma, ospite di Virginia Raggi in Campidoglio. Quindi? “Se non cambierà il loro atteggiamento modificheremo la legge Bassanini”. Boom!

 

I magistrati eleggono un deputato del Pd alla vicepresidenza del Csm? “Prendo atto che all’interno del Csm c’è una parte maggioritaria di magistrati che ha deciso di fare politica”, dice il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede poco prima di far sapere che “riformeremo il Csm introducendo il sorteggio”. Boom! Boom!

 

Alcuni quotidiani pubblicano un audio in cui Rocco Casalino chiama “pezzi di merda” i tecnici del ministero dell’Economia? E sul blog del M5s appaiono queste parole: “A cosa serve l’ordine dei giornalisti se non sanziona la diffusione delle notizie false e i comportamenti antietici di giornalisti mossi solo da interessi di partito e non dal desiderio di informare i cittadini? A niente. Quindi aboliamolo. Il provvedimento è già sul tavolo del governo”. Boom! Boom! Boom!

 

Praticamente qualsiasi governo della Seconda Repubblica ha pasticciato con la promettente demagogia dell’efficienza riformista. I politici, travolti da un’assordante e ubiqua frenesia, a un certo punto sentono il dovere di agire, come per ricacciare dentro un grumo di disagio, una scontentezza, un’intermittente impressione d’essere mancati alla prova decisiva, di non aver fatto la cosa importantissima: quindi ecco una nuova piroetta sulla pedana della scuola, una capriola temeraria sul tappetino dell’università, un funambolico esercizio sulle parallele del lavoro e della giustizia, un’acrobazia attraverso gli anelli della pubblica amministrazione. Sicché spesso c’è capitato di pensare che da noi le riforme siano uno spettacolo horror di cui andrebbero tenuti all’oscuro i bambini e le persone impressionabili. Riforme sbagliate, pasticciate, fuori tempo, contraddittorie, velleitarie, ideologiche… Tuttavia mai, prima di Luigi Di Maio al governo del paese, ci s’era trovati di fronte alle riforme in versione “Padrino” di Francis Ford Coppola, una cosa a metà tra la vendetta e la sovreccitazione minacciosa, il compiacimento per la forza e l’euforia da ritorsione.

 

Basta leggere cosa dicono, d’altra parte, per capire che le riforme sono soltanto il pretesto per dare corpus legi ai rancori ossessionali di questi nuovi potenti. I burocrati del Mef vanno riformati perché “pezzi di merda” e amici del “terrorismo” dell’Ue, come i giornalisti che sono “servi”, “pennivendoli” e pure loro un po’ “merde”. Cosa che vale ovviamente anche per i togati del Csm che potevano votare alla vicepresidenza un tizio indicato da Di Maio e invece hanno eletto David Ermini che è del Pd, quindi “pidiota” (dunque iscritto a un “partito morto”, e anche un po’ un “partito di merda”). Di conseguenza i vitalizi agli ex parlamentari – età media settantasei anni – sono stati riformati per punire “i parassiti”. Le pensioni oltre i quattromilacinquecento euro saranno tagliate per punire chi ancora non è povero, dunque parassita. E le Autostrade si devono nazionalizzare perché i Benetton speculano, sono troppo ricchi e certamente parassiti più di tutti gli altri.

 

Ovviamente bisogna saper distinguere. A volte il rancore può essere giustificato. Ma è sicuro che i rancorosi produrranno comunque solo norme rabbiose, il contrario cioè dell’equilibrio della legge. E ci si chiede allora quale forma di squilibrio – da qui il richiamo non ai politologi ma ai neuropsichiatri – porti questi membri della maggioranza, questi ministri e vicepremier a chiamare “riforme” quelle che un tempo si chiamavano con il loro nome: manganellate, bastonate, mazzate, sprangate. Una riforma, uno scalpo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.