Luigi Di Maio e, sullo sfondo, Matteo Renzi (foto Imagoeconomica)

Il governo del cambiamento non cambia

Veronica De Romanis

L’impianto della Manovra è sempre il solito: più spesa corrente finanziata in deficit per spingere la crescita

Secondo i due vice premier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, la “Manovra del Popolo” segna una forte discontinuità rispetto al passato. Con l’introduzione di misure come il reddito di cittadinanza, la pensione di cittadinanza e l’inizio della flat tax (che tanto flat non è più), il governo del Cambiamento mette fine alle politiche di austerità implementate negli ultimi anni e avvia una nuova fase di crescita e sviluppo. In realtà, a guardar bene, questa manovra è del tutto in linea con quella degli esecutivi Renzi-Gentiloni che – per inciso – non hanno adottato interventi riconducibili all’austerità e, infatti, il surplus primario strutturale (ossia al netto dell’effetto del ciclo economico) – che è l’indicatore che misura il grado di austerità – è calato nel periodo 2013-2018 dal 3,6 per cento al 2,2. L’impianto è sempre il solito: più spesa corrente (10 miliardi per gli 80 euro di Renzi, 10 miliardi per il reddito di cittadinanza di Di Maio) finanziata in deficit per far ripartire la crescita. Questa ricetta, tuttavia, si è rivelata fallimentare dal momento che l’Italia continua a essere il paese che cresce meno di tutta l’area dell’euro e il suo debito (in rapporto al pil) è il secondo più elevato.

 

Nonostante questa evidenza, ossia che più deficit non si traduce in più crescita, l’attuale esecutivo è convinto che la crescita ripartirà, e di molto. Lo ha dichiarato lo stesso ministro dell’Economia, Giovanni Tria, colui che firma la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, in un’intervista al Sole 24 Ore di domenica scorsa (“La Manovra non è una sfida alla Ue”). Secondo Tria, la crescita si attesterà nel 2019 all’1,6 per cento e nel 2020 all’1,7, oltre mezzo punto percentuale in più rispetto alle stime elaborate dagli organismi internazionali. Una crescita così elevata sarebbe assicurata non solo da interventi come il reddito e pensioni di cittadinanza, ma anche dall’attivazione di circa 15 miliardi di investimenti nell’arco di tre anni. Investire in Italia non è mai cosa semplice, ma il capo del dicastero economico ritiene che questa volta è diverso perché il governo ha in mente una serie di interventi volti a semplificare le norme che mettono in moto la macchina pubblica: “C’è bisogno di una sorta di nuovo genio civile”, ha dichiarato Tria nell’intervista. E’ chiaro che non sarà facile cambiare le procedure dal giorno all’indomani: il rischio che gli investimenti non vengano implementati e che, quindi, non ci sia un incremento della crescita, è concreto. In caso di insuccesso, tuttavia, l’impatto negativo sulle finanze pubbliche sarebbe comunque limitato, perché il ministro ha pronta una “rete”, ossia un nuovo strumento volto a tenere i conti dello stato in ordine: le clausole di “spesa”.

 

Cosa significa nel concreto? Tria intende eliminare le clausole di salvaguardia, ossia quelle clausole che consentono di inserire in bilancio spese “coperte” con futuri incrementi dell’Iva, perché producono un impatto negativo sulla crescita. A suo avviso, la minaccia di un inasprimento delle pressione fiscale è dannosa: crea incertezza e, nel dubbio, i cittadini tendono a risparmiare vanificando l’impatto positivo della maggiore spesa sulla crescita. Peraltro, queste clausole riducono in maniera artificiale il livello del disavanzo in fase di previsione. Per disinnescarle, infatti, i governi hanno sempre fatto ricorso al maggior deficit (e non a tagli delle spese) dando luogo a un saldo finale maggiore di quello inizialmente stimato.

 

Il ministro vuole inserire nel Def un “disavanzo pulito” ossia non “abbassato da una clausola sulle entrate che già si sa che non verrà rispettata” e, pertanto, intende ribaltare la logica facendo ricorso a clausole che agiscono dal lato della spesa invece che da quello delle entrate. Come? Attraverso un attento monitoraggio della crescita. Se a fronte di una maggiore spesa finanziata in disavanzo, la crescita non raggiungesse un livello tale da riportare il rapporto disavanzo/pil in linea con quanto previsto dal governo, scatterebbe la nuova clausola, ossia verrebbe tagliata la spesa in modo da correggere il suddetto rapporto non più dal lato del denominatore bensì da quello del numeratore.

 

Il ricorso a questo nuovo strumento solleva alcune perplessità. In primo luogo, l’intervento rischia di essere pro-ciclico dal momento che la riduzione della spesa avviene proprio quando la crescita rallenta: il rischio è quello di rallentare la crescita ancora di più. In secondo luogo, sarebbe utile chiarire cosa tagliare: spesa in conto capitale oppure spesa corrente? E in quest’ultimo caso, bisognerebbe chiarire quale componente della spesa corrente. In teoria, si potrebbe intervenire anche sul reddito di cittadinanza già distribuito. Di fronte a questa eventualità, i cittadini tenderebbero a mettere da parte il sussidio ricevuto, annullando così gli effetti positivi sulla crescita proprio come avviene con le clausole di salvaguardia.

 

C’è, allora, da chiedersi, dove sta la discontinuità rispetto al passato? Il “metodo” della Manovra del Popolo è lo stesso: più spesa in deficit per fare più crescita. Ma anche gli strumenti sono gli stessi: ricorso a clausole che possono dar luogo a aumenti di tasse o tagli di spesa e, quindi, a un possibile effetto depressivo sulla crescita oppure a un maggiore disavanzo. L’esito di una simile impostazione di politica economica lo abbiamo già sperimentato: scarsa crescita e molto debito. Non si capisce, quindi, perché replicare ciò che non ha funzionato. Peraltro, rispetto al passato, il governo giallo-verde si trova ad operare in una situazione diversa: l’acuirsi delle tensioni geopolitiche, l’innalzamento di barriere commerciali e l’aumento dei tassi di interessi legato alla fine del Quantitave easing. In un simile contesto, una manovra finanziata in disavanzo diventa ancora più rischiosa.