Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Una manovra pericolosa

Salvatore Merlo

Ciascuno prigioniero dell’estremismo dell’altro, Di Maio e Salvini giocano con lo spread (a 300), e i rischi sono calcolati

Roma. La metafora è quella di due automobili sparate a grande velocità, come nella scena finale di “Gioventù bruciata”: il primo che rallenta ha perso. E così, mentre lo spread supera i 300 punti e la Borsa cala colpendo soprattutto i titoli bancari, ecco che Luigi Di Maio e Matteo Salvini sono prigionieri l’uno dell’altro e contemporaneamente anche di se stessi, delle proprie parole, ciascuno chiuso nell’abitacolo del proprio concorrenziale estremismo. “Ma chi gliel’ha fatto fare di salire su quel benedetto balcone l’altra sera, a Palazzo Chigi, dando per fatta la manovra?”, si chiede un vecchio leghista, parlando dei Cinque stelle. Perché i proconsoli del governo, Di Maio e Salvini, saranno anche stretti nella tenaglia da loro stessi costruita, ma tutt’intorno crescono i dubbi, si scambiano parole dall’aria drammatica e vagabonda. Nella Lega ci sono gli allegri giocatori d’azzardo come Claudio Borghi, quelli che una crisi dell’euro la mettono in conto nel quotidiano possibilismo della vita, e quelli che invece, come Giancarlo Giorgetti, vorrebbero fare ricorso alla cautela sperimentata della mediazione con l’Europa. E così è anche nel M5s. Con la non piccola differenza che lì, accanto a Di Maio, non ci sono voci politiche ed esperte come quella di Giorgetti, ma una confusione improvvisata in cui – quasi sempre – prevale la logica della comunicazione, del marketing , dunque l’uso e l’abuso di parole forti e definitive, specialmente nei momenti di difficoltà politica, Adesso, come ai tempi dell’impeachment a Mattarella. 

 

  

E allora Salvini dà dell’ubriaco al presidente della Commissione europea Juncker, mentre Di Maio ripete che la colpa dello spread è tutta nelle dichiarazioni dei commissari europei, in particolare di Pierre Moscovici, e non nei contenuti di una manovra “di cui la Commissione non ha visto nulla. Nemmeno il Def di cui parlano male soltanto perché c’è un pregiudizio nei nostri confronti”. Ma non è possibile che lo spread sia influenzato anche dalle dichiarazioni della maggioranza, dai sostenitori dell’uscita dall’euro, come Borghi? “Quelle sono opinioni personali che si ha tutto il diritto di esporre”, taglia corto Di Maio nel corso di una conferenza stampa, alla Camera. Nessuno dei due proconsoli del governo molla, anzi. Accelerano entrambi.

 

“La manovra la spiegheremo nelle piazze”, dice Di Maio, quasi con rabbia, lasciando intravedere forse il timore di restare impigliato in qualche manovra di Palazzo, nei dedali sotterranei che collegano il ministero dell’Economia con il Quirinale, lì dove si fa esercizio d’ottimismo. “E’ stato approvato soltanto il Def”, dicono infatti al ministero, cioè il documento di economia e finanza che è soltanto una copertina, l’illustrazione non impegnativa di cosa potrebbe contenere la manovra economica. C’è ancora tempo. Si può rimediare. Si possono fare aggiustamenti. E allora negli uffici che collaborano con il ministro Giovanni Tria sostengono che la manovra potrà essere diversa, che ci sono margini di rientro, che il deficit si può un po’ limare, che il reddito di cittadinanza può anche trasformarsi in qualcosa di meno oneroso, così come la flat tax si può rimodulare. Ipotesi, suggestioni, sogni. E tutti stanno sospesi così, tra fantasie e timori, indicando Giorgetti, come se il sottosegretario leghista fosse l’unico capace di far ragionare i ragazzi scapestrati che prendono le decisioni. Ma chissà. La Commissione europea attende di leggere il documento, che oggi, pare, potrebbe essere reso pubblico. E poi? Poi che succede?

 

Accetterà, in caso, il governo, una trattativa vera qualora la Commissione dovesse inviare una lettera con delle richieste di modifica? Di Maio non risponde alla domanda. Poi si tuffa a Palazzo Chigi come si entra in uno specchio, lì dove lo aspetta Salvini, pronto a cogliere qualsiasi segnale di cedimento da parte dell’alleato, pronto – in caso – a rinfacciarglielo. A utilizzarlo a fini elettorali in questa inarrestabile corsa a chi è più amico del popolo, a chi tiene più duro e più a lungo. Succeda quel che succeda.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.