L'imprenditore Gilberto Benetton, morto a 77 anni, è stato l'artefice una diversificazione che sembrava azzardata e improbabile(Foto Imagoeconomica)

Il capitalismo dopo Gilberto Benetton

Stefano Cingolani

Che ne sarà adesso della Galassia del Nord? Il rebus Generali, dove Benetton aveva aumentato la sua quota. Le famiglie, le banche, l’assenza di un centro di gravità e le cessioni all’estero

Che succede al vertice del capitalismo italiano dopo la morte di Gilberto Benetton? La domanda sembra a un tempo retorica ed eccessiva. Certo, i Benetton sono importanti. Il loro gruppo fattura una dozzina di miliardi – pochi su scala internazionale, ma moltissimi nell’Italia dell’impresa piccola piccola – spazia dalla manifattura (i mitici maglioncini, quelli degli United Colors) alle infrastrutture (autostrade, aeroporti, stazioni), dalla ristorazione (Autogrill) agli immobili, alla finanza (nelle Assicurazioni Generali) ed è stato proprio Gilberto ad aver realizzato una diversificazione che sembrava azzardata e improbabile. Tuttavia, appartati se non proprio arroccati nel loro fortilizio trevigiano, i Benetton non hanno mai esercitato né la funzione egemonica degli Agnelli né quella pedagogica dei Pirelli; non hanno dominato la scena né tanto meno la politica come Silvio Berlusconi o Carlo De Benedetti: non si sono consumati in avventate avventure come Raul Gardini e i Ferruzzi.

 

Dunque, calma e gesso, meglio restare con i piedi per terra e analizzare il futuro del gruppo, o tutt’al più chiedersi quali ricadute ci saranno nell’eterna scomposizione e ricomposizione della Galassia finanziaria del Nord. Che ne sarà dell’equilibrio proprietario nelle Generali (Gilberto Benetton aveva recentemente aumentato la sua quota, così come avevano fatto l’amico Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone), anche in vista del rimescolamento atteso nell’azionista numero uno, la Mediobanca dove Vincent Bolloré ha disdettato anzitempo il patto di sindacato? Non è un caso che Del Vecchio sia uscito adesso allo scoperto annunciando urbi et orbi di voler salire “in modo consistente”. Oggi ha il 3,5 per cento ma secondo il Sole 24 Ore punta al 6. Mediobanca ha il 13,3 per cento, De Agostini il 2,4, Caltagirone il 4,5 e anche lui continua a comprare, i Benetton sono ancora sotto l’uno per cento. Dunque, la domanda dalla quale siamo partiti non è campata in aria.

Il gruppo fattura una dozzina di miliardi: pochi su scala internazionale, ma tanti nell’Italia dell’impresa piccola piccola

 

Fuori Fiat, fuori Luxottica, entrambe attraverso un gioco di acquisizioni e matrimoni (con Chrysler e con Essilor), siamo arrivati al punto che la morte di Wanda Ferragamo, la moglie di Salvatore, il mitico “ciabattino delle dive”, è stata celebrata in Borsa con un rialzo delle azioni, perché tutti hanno cominciato a speculare su una vendita dell’azienda, come è appena accaduto a Versace o a molti altri in questi anni (da Bulgari a Loro Piana tanto per fare due nomi). E non c’è solo il lusso. La cessione della Magneti Marelli ai giapponesi, attraverso il fondo americano Kkr, probabilmente salverà i posti di lavoro e l’eccellenza tecnologica italiana, ma è l’ennesimo ammainabandiera dell’industria nazionale in uno dei suoi punti forti, perché l’Italia non esporta soltanto cibo e moda, ma soprattutto macchine e componenti industriali.

 

Anche i Benetton, che debbono risolvere la successione al vertice e ridefinire la loro strategia dopo la tragedia di Genova, guarderanno sempre più all’estero. Il primo passo, non facile, è il distacco da Autostrade per l’Italia e, secondo il Sole 24 Ore, ci sono già manovre in corso con l’intervento di banche e della onnipresente Cassa depositi e prestiti; il secondo sarà mettere a frutto l’acquisizione del 50,5 per cento nella Abertis, la società autostradale spagnola, poi dovranno trovare alleanze internazionali per Autogrill (si guarda soprattutto a sviluppare l’espansione negli Stati Uniti) e costruire un polo aeroportuale che vada oltre Roma e Nizza. Luciano ha intenzione di rinfrescare i vecchi amori per l’abbigliamento e la distribuzione, quindi dovrà competere con la spagnola Zara e la svedese H&M. In ogni caso, gli orizzonti sono lontani dai confini italiani.

 

Non si tratta di innalzare il tricolore, ma è un fatto che il capitalismo italiano, dopo la scomparsa di Enrico Cuccia e di Gianni Agnelli, non ha più un centro di gravità, né permanente né transeunte. Si è cercato di mettere le banche al cuore del sistema, ma l’operazione è fallita un po’ perché le banche sono appesantite dal debito pubblico (la maggior quota di titoli di stato venduti è nei loro bilanci e in quelli delle compagnie di assicurazione) un po’ perché sono poco efficienti e in ritardo nell’incamerare la rivoluzione internet, quindi hanno bisogno loro stesse di una grande ristrutturazione, ma soprattutto perché ci vogliono banchieri dotati di visione strategica, non solo gestori di conti correnti e patrimoni. Così, i vari tentativi di trovare “un nuovo Cuccia” sono sempre durati lo spazio d’un mattino.

Per essere grandi un tempo bastava mezzo miliardo di euro, oggi ce ne vuole almeno uno e mezzo. Il quarto capitalismo

  

Negli anni Novanta, quando la crisi del modello economico italiano è precipitata insieme al collasso del sistema politico, è maturato il progetto di far nascere una nuova schiera di capitalisti, come scrisse Romano Prodi, attraverso la privatizzazione dell’industria e delle banche di stato. Vasto programma, vissuto poco più del tempo di una farfalla, poi sono tornati i vecchi vizi. Telecom Italia o la siderurgia sono due esempi eclatanti. Molte le ragioni di questo insuccesso e non hanno a che vedere con la “svendita del patrimonio pubblico”, idea fissa della campagna populista e neo-statalista. Dal 1994 a oggi lo stato ha incassato circa cento miliardi di euro dalle privatizzazioni (la quota ampiamente maggiore negli anni Novanta). Potevano essere di più? Tutto è possibile, ma bisogna pur sempre dimostrarlo.

 

Un’altra tesi, questa prevalente a sinistra, è che le privatizzazioni siano state decise senza una strategia industriale. Non è del tutto vero. Semmai hanno seguito due modelli in conflitto: da una parte quello renano, o meglio francese, con un nucleo di azionisti in grado di garantire la stabilità proprietaria, dall’altra quello anglo-americano della public company. Questa contraddizione è insita persino nelle leggi sul risparmio e sulla Borsa. Ciò ha prodotto oscillazioni continue, anzi zig zag destabilizzanti. Il caso Telecom è paradigmatico: prima il “nocciolino duro”, poi la più grande scalata borsistica mai realizzata, un azionista di riferimento, le banche, un socio estero, fino all’odierno braccio di ferro tra i francesi di Vivendi e gli americani del fondo Elliott.

 

Paolo Savona nel suo libro autobiografico racconta che nel 1994, quando era ministro dell’Industria, venne accusato apertamente da Nino Andreatta di lavorare per Mediobanca, perché sosteneva la strategia del nocciolo duro. In effetti, Savona si dimise (anche se solo per 24 ore) in contrasto con Romano Prodi che voleva vendere sul mercato il capitale della Comit. La sua linea vinse, ma a lungo andare si è rivelata un altro modo per ingessare il mercato con le banche controllate dalle fondazioni (ad alta caratura politica) e le industrie in mano a imprenditori o troppo deboli o impreparati.

La morte di Wanda Ferragamo ha visto un rialzo delle azioni, perché tutti hanno cominciato a speculare su una vendita dell’azienda 

  

Che cosa è oggi il capitalismo italiano? Un ammasso di macerie come raccontano i pentastellati? O un prato di teneri virgulti pronti a germogliare una volta sottratti ai veleni europei? Né l’uno né l’altro. Forse l’immagine più calzante è quella delle vaste e indistinte megalopoli della provincia americana, con un pugno di grattacieli al centro e una distesa informe di ville, case e casette. La classifica Mediobanca per il 2017 colloca al vertice l’Enel con oltre 73 miliardi. L’Eni è seconda, la terza è Gse, la società pubblica per la compravendita di energia elettrica, davanti a Fca Italy. Tim è quinta e recupera un 4,4 per cento a 19,5 miliardi mentre Edizione dei Benetton sale in sesta posizione. Luxottica, con vendite a 9,2 miliardi, migliora di una casella a scapito di Saipem, scesa al decimo posto. Nella top 20 entrano Salini Impregilo e Wind. Per le banche, in testa alla classifica per totale di attivo tangibile restano Unicredit e Intesa Sanpaolo, rispettivamente con 833 e 789 miliardi di attività. La Cassa depositi e prestiti è al terzo posto con 367 miliardi, mentre in quarta posizione si colloca il Banco Bpm con quasi 160 miliardi di attivo. Seguono Monte dei Paschi, Ubi e Bnl.

 

Per essere grandi un tempo bastava mezzo miliardo di euro, oggi ci vuole almeno un fatturato da un miliardo e mezzo. Il capitalismo familiare ha cambiato volto, dagli inizi del nuovo secolo ben 18 sono i nuovi ingressi tra le prime “50+1” aziende familiari, in percentuale si tratta del 35 per cento come dimostra lo studio di Guido Corbetta e Fabio Quarato dell’Università Bocconi. Il più uno è Exor, che si distacca da tutti gli altri: con 140 miliardi di ricavi è oltre dieci volte più grande di Benetton. La Exor non è più incorporata in Italia e l’ufficio studi di Mediobanca ha smesso di analizzarne i dati nella sua annuale rassegna, tuttavia Fca Italy resta la principale impresa manifatturiera e l’intera filiale dell’auto, compresa la componentistica, ha tirato la ripresa degli ultimi due anni. La cinquina di testa è composta ancora dagli Agnelli, seguiti dai Benetton, Ferrero, Del Vecchio e Caprotti. Per tutti si è posto il difficile passaggio generazionale e l’appuntamento con il mercato mondiale; tutti, chi più chi meno, hanno risposto uscendo dai confini e puntando sull’estero. Giovanni Ferrero che guida il gruppo della Nutella, ha rotto con la tradizione lanciandosi decisamente in acquisizioni estere e ha compiuto un balzo in classifica passando dalla sedicesima alla terza posizione.

 

Dietro i magnifici 5, troviamo i Brachetti Peretti, i Moratti, i Salini, i Boroli-Drago (De Agostini), i Berlusconi. E, ancora, i Cremonini, gli Aleotti di Menarini, i Benedetti del gruppo Danieli, i Veronesi di Ali e i Veronesi (non sono parenti) di Calzedonia, i Brunelli di Canova 2007. Lo studio della Bocconi ricorda anche chi si è sviluppato per linee interne come Alberto Bombassei con la Brembo e Giorgio Squinzi con la Mapei. La selezione c’è stata, senza dubbio. Tra le 18 uscite dalla classifica Italmobiliare, Artsana e Pininfarina dove la famiglia proprietaria ha ceduto il controllo del gruppo. Alcune aziende del sistema moda — Max Mara, Ermenegildo Zegna, Salvatore Ferragamo — sono cresciute, ma non in modo sufficiente per rimanere tra le più grandi. Altre sono rimaste al di sotto della soglia minima, come Bracco, Sdf (Same), Dalmine, Seci (Maccaferri). Dalla ricerca di Corbetta e Quarato emerge un quadro mobile, dinamico.

 

La crisi ha creato nuove opportunità, alcuni le hanno sapute cogliere, altri no. Questo vale anche per il quarto capitalismo. Si tratta di circa cinquemila imprese alle quali fa capo un quarto della produzione industriale italiana. Sono ancora troppo poche, secondo Michele Salvati, ce ne vorrebbero almeno il doppio per gareggiare con la Germania e il suo Mittelstand; sono concentrate nel nuovo triangolo industriale, Emilia, Lombardia e Veneto, con appendici in Piemonte, Marche e Toscana, ma soprattutto sono troppo piccole. Il problema della taglia si pone, dunque, sia in alto sia in basso. E’ quel che vogliono negare i pentastellati e la stessa Lega che ha scelto le partite Iva come ceto di riferimento.

I vari tentativi di trovare “un nuovo Cuccia” sono sempre durati lo spazio d’un mattino. La polemica sulle privatizzazioni

 

La politica economica del centrosinistra puntava ad accompagnare la selezione creatrice favorendo la crescita della taglia e la proiezione estera delle imprese (Industria 4.0 ne rappresenta l’esempio), quella gialloverde al contrario privilegia il localismo e la protezione dei settori marginali, anche di quelli inefficienti (il condono, le pensioni di anzianità anticipate, il reddito di cittadinanza sono ispirati da questa visione). Il ritorno statalista, poi, punta a usare le aziende a partecipazione statale come ciambelle di salvataggio, privilegiandole rispetto a quelle private (ciò vale più per i Cinque stelle, ma anche Salvini ha avuto una conversione lungo via Veneto, davanti a palazzo Piacentini, storica sede dell’Iri). Imprenditori che hanno dato credito ai populisti come Carlo Bonomi dell’Assolombarda o che sostengono esplicitamente la Lega come il veneto Matteo Zoppas, cominciano a capire dove porta la via populista allo sviluppo e prendono le distanze.

 

Forse è già troppo tardi, ma la partita decisiva si gioca ancora una volta nella Galassia del Nord. La rottura di Bolloré dentro Mediobanca ha riaperto vecchie ferite. Si pensa che il finanziere bretone, oggi secondo azionista subito dopo Unicredit, voglia avere mano libera per lanciarsi in una scalata sotto l’occhio benevolo di Jean Pierre Mustier, amministratore delegato di Unicredit che da tempo si chiede cosa fare di Mediobanca; sganciarsi, fonderla, venderla o che altro. Il suo obiettivo strategico è maritare la prima banca italiana con una banca straniera di simile grandezza. Si era parlato di Société Générale, nella quale Mustier si è fatto le ossa, ma anche di banche olandesi o inglesi. Tutto prematuro, per il momento, in ogni caso è probabile che anche Unicredit prenderà la strada imboccata da Fiat e da Luxottica, una strada che porta al di là delle Alpi. Si spezzerebbe in tal caso la filiera Unicredit-Mediobanca-Generali, rendendo vulnerabile il Leone di Trieste, il salvadanaio degli italiani oltre che un pilastro per il debito pubblico, visti i titoli di stato che ha in portafoglio (64 miliardi di euro).

 

E’ questo lo scenario nel quale si sta svolgendo la rimonta di Del Vecchio e degli altri soci italiani. I leghisti agitano lo spauracchio della colonizzazione francese e appoggiano la costituzione di una pattuglia nazionale a presidio di Generali, ma affinché l’operazione sia consistente, c’è bisogno che la cordata venga guidata da Mediobanca, nessun altro ha le quote e i quattrini sufficienti. Quanto ai pentastellati, si lanciano contro chi vuol metter mano al risparmio degli italiani, intanto stanno creando la loro stanza dei bottoni nella Cassa depositi e prestiti; per il momento sono lontani dai grandi giochi del nord Italia, a meno che non pensino di mettere in campo la Cdp anche per questo. Alla finestra rimane Intesa Sanpaolo che si è candidata a diventare banca di sistema e un anno fa ha tentato di scalare le Generali. Un tempo, tra Milano e Trieste si combatteva la madre di tutte le guerre finanziarie, oggi la battaglia principale è quella contro lo spread; intanto i duellanti affilano le spade.