Viktor Orbán (foto LaPresse)

Fuori Orbán per salvare l'Europa

Giuliano Ferrara

È certo che senza l’Ungheria e la Polonia qualcosa di forte e importante resterebbe in piedi. Non accadrà, ma lo scontro tra liberali e illiberali è una situazione-limite nel cuore di una costruzione che aveva puntato tutto sull’espansione delle libertà

Viktor Orbán, il leader ungherese di Fidesz, che ha una forte maggioranza popolare in suo favore, aveva cominciato non si dirà in sordina ma insomma, con qualche cautela, la sua opera di restauratore conservatore della patria. Piano piano ha cominciato a coltivare l’idea di una “democrazia illiberale”, proprio così, la definizione ai limiti dell’ossimoro è precisa ed è sua. Parte del Partito popolare europeo, bastione liberal-conservatore dell’Unione dopo la lunga stagione avviata negli anni Cinquanta dal Trattato di Roma, e partner dei progressisti e socialisti, il partito di Orbán ha giocato le sue carte per alcuni anni tra dissimulazioni di vario genere, poi è uscito al naturale con la campagna contro l’Università di Soros, sloggiata dal paese, contro le autonomie istituzionali, i pesi e contrappesi liberali nell’economia e nel sistema giuridico, si è impadronito dei media al 90 per cento, e tutto facendo sventolare la bandiera dell’immigrazione zero e delle radici cristiane di quel cuore storico dell’Europa nei secoli che l’Ungheria effettivamente è, nonostante la sua lingua allogena e misteriosa rispetto ai ceppi latino, germanico e slavo. In poche parole, Orbán ha cominciato a pencolare verso Putin, in modo più o meno strumentale, ha tagliato le sue radici popolari, fino al punto di inimicarsi perfino i confratelli austriaci che governano con l’estrema destra, e ha sfidato da uomo forte tra gli uomini forti, con una propensione immaginabile per il Truce, nel frattempo affiliato alla caricatura del trumpismo che è il movimento di Bannon, il Parlamento europeo, che gli ha votato contro su un punto dirimente: lo stato di diritto, i criteri liberali del sistema, violati ai sensi dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea.

   

Una situazione simile non si era mai presentata, il che la dice lunga su dove sia arrivata l’Europa della pace, della prosperità, delle libertà, dei diritti e degli scambi. Maestosamente, il Trattato parla di una moneta comune e perfino di una cittadinanza comune, e naturalmente fa riferimento ai cardini del diritto eguale, della non discriminazione e altri criteri base di una società politica, in questo caso non nazionale ma sovranazionale. L’immigrazione, il conflitto di civiltà, la grande paura del terrorismo islamista, la crisi economica e finanziaria, l’onda lunga di fenomeni quali le democrature dell’est, più la Crazyland di Donald Trump, l’uscita dei britannici, la vasta diffidenza verso l’establishment multinazionale e multiculturale, che mette l’accento sul liberalismo presupponendo la democrazia, il che è un po’ ardito, visto che si tratta di un governo tecnocratico delle élite solo ex post legittimato dalla decisione politica inter-statale e inter-nazionale, tutto questo ha indotto parte del ceto medio e popolare a una rivolta elettorale e politica di notevoli proporzioni. E Orbán intende a quanto pare mettersi al centro della rivolta, forse per torcere il braccio al popolarismo e cambiarne la natura, inducendolo a patti con la nuova idea di Europa e di nazione, forse per batterlo con una nuova alleanza delle destre e dei populismi già scoppiettanti in molti paesi.

    

Tutto questo è a spanne abbastanza chiaro. Quel che non è chiaro è che cosa debba fare l’Europa che si è conosciuta per settant’anni, quella dei fondatori, quella uscita dal Novecento delle guerre e dei totalitarismi, quella nata dal progetto di abolizione dei confini armati tra francesi e tedeschi, con tutto ciò che hanno portato con sé. Andare fino in fondo con Orbán, magari trasferendo il voto parlamentare a lui ostile in una decisione difficile del Consiglio europeo che lo escluda dal diritto di voto, sanzione grave fino a essere temeraria eppure così ovvia quando si tratti di censurare una democrazia che diventa illiberale, e vivacchiare per il resto con i problemi che si ripresentano di volta in volta sotto la forma polacca, il paese più vicino all’Ungheria da questo punto di vista, o domani l’Italia o l’Austria.

    

Oppure ripensarsi, rendersi autonoma come istituzione-progetto dai gravami degli uomini forti e del loro illiberalismo conclamato, ricomporre tutto intorno al nucleo vero, Parigi-Berlino (una volta Parigi-Bonn), lasciare che l’est nuovo arrivato se la veda con sé stesso, senta il morso della prospettiva dell’isolamento dal mercato unico e dal tesoro di tecnologia, investimenti, produttività e capacità innovativa che tutto sommato è ancora una prerogativa di una certa Europa alle origini del progetto comune, con un occhio alla strana Italia in bilico. Non si sa bene che pensare. Quel che è sicuro è che l’Ungheria o la Polonia senza l’Unione sono identità stabili e antico lignaggio ma hanno poco potere di influenza e di slancio nei mercati internazionali, perché alla fine anche Putin Trump e Xi Jinping è con i franco-tedeschi che devono trattare. Ed è altrettanto certo che senza di loro, costretti a un isolamento provinciale per certi aspetti tenebroso, qualcosa di importante e forte resterebbe in piedi, a decidere (potendo) di buttarli fuori. Ma sono cose complicate, l’Europa si è sempre affidata a tempi lunghi e passetti brevi, e farà così anche questa volta, probabilmente, sebbene sia una situazione-limite, un’esperienza assolutamente inedita, lo scontro tra liberali e illiberali nel cuore di una costruzione che sull’espansione delle libertà aveva puntato tutta la posta.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.