Un murales di Banksy

Austerità e voglia di cambiamento. Appunti dalla Germania pre nazista

Gustavo Piga

Chi crede ancora in un progetto comune europeo può sperare di poter arrestare il crescente risentimento verso l’Europa solo abolendo il Fiscal Compact

In un recente lavoro pubblicato nella prestigiosa collana del centro di ricerca statunitense NBER, “L’austerità e la crescita del partito nazista” quattro ricercatori si interrogano empiricamente sulle cause economiche del successo elettorale del partito condotto da Hitler tra il 1930 ed il 1933. I dati sul voto di 1024 distretti tedeschi mostrano come le politiche dell’austerità (aumenti di tasse e riduzione di spesa pubblica) del cancelliere Brüning, a capo della cosiddetta repubblica di Weimar tra il 1930 ed il 1932, generarono un aumento dei voti per il partito nazista. Le loro conclusioni sono molto chiare: “La coalizione che permise che una maggioranza si formasse per governare nel marzo del 1933 avrebbe potuto non materializzarsi se soltanto la politica fiscale fosse stata più espansiva”, dunque meno austera.

      

E’ curioso che della parola “austerità” non si trovi mai traccia nel recente articolo su Il Foglio di un ricercatore di tanto prestigio e accuratezza scientifica come Guido Tabellini, tipicamente avulso dall’utilizzo ideologico dei dati. L’economista della Bocconi ha l’innegabile merito di riproporre un’analogia, quella tra la situazione degli anni trenta in Germania con quella attuale italiana, che molti di noi avevano comunque proposto agli albori della crisi, tra il 2012 ed il 2013, avvertendo dei rischi che si andavano profilando all’orizzonte. Eppure qualcosa non torna nella sua analisi. Dire che “tra i tedeschi era diffuso il risentimento verso un’Europa accusata di avere approfittato delle riparazioni di guerra”, non chiarisce la fonte del problema che affliggeva la Germania, lasciando un’ambiguità di fondo che non è propria della scienza economica: questo risentimento era giustificato o non lo era?

  

Lo studio NBER sopra citato parrebbe stabilire come – nei limiti in cui l’austerità tedesca fosse una politica necessaria per venire incontro alle richieste della coalizione dei vincitori della Grande Guerra – tale risentimento fosse effettivamente giustificato, ponendo le basi per drammatici cambiamenti nella società tedesca e nel mondo. Nulla di nuovo: il grande pensatore economico del tempo, John Maynard Keynes, a seguito di queste politiche, ebbe modo di affermare nel 1932 come “molte persone in Germania non hanno nulla a cui aggrapparsi, se non a un ‘cambiamento’, qualcosa di totalmente vago e di totalmente indefinito, ma un cambiamento”.

  

Un’analogia, quella della parola cambiamento, con quanto sta avvenendo a casa nostra che non può sfuggire e che dovrebbe rendere inevitabili le conclusioni di policy da adottare per il presente: se è l’austerità europea che ha causato la crisi e la radicalizzazione nella nostra penisola e altrove, come paiono confermare ampiamente i dati, è solo smontandola (abolendo il Fiscal Compact) che coloro che credono ancora in un progetto comune europeo possono sperare di poter arrestare il crescente risentimento attuale verso l’Europa stessa.

  

Vero è che “disfare” l’austerità lascia aperta la questione del come farlo. Chi scrive indica da sempre tre condizioni: 1) non superando il 3% del deficit-PIL per non oltrepassare una soglia simbolica ormai connaturata all’area euro, 2) concentrando le poche risorse addizionali (oltre al non aumentare l’Iva, richiesta che verrebbe ormai accettata anche dall’Unione) per il 2019 sulla componente che più incide su domanda, produttività e occupazione, ovvero gli investimenti pubblici e 3) accompagnando queste maggiori spese con un’incisiva e vera spending review per dimostrare da un lato all’Europa che si spenderà bene e ottenendo dall’altro ulteriori risorse – senza addizionale deficit – per finanziare l’avvio di misure politicamente gradite come flat tax e reddito di cittadinanza.

  

Più di tutto, l’articolo di Tabellini sollecita una riflessione politica quando conclude che “il progetto di integrazione europea non si fermerà se l’Italia minaccia di abbandonarlo. Semplicemente l’Italia sarebbe abbandonata al suo destino”. E’, questa, una minaccia che non solo non spaventa i movimenti anti-europei, che la vedono piuttosto come una speranza, ma che soprattutto non dovrebbe far parte del bagaglio prescrittivo di un pro-europeo come Guido Tabellini. Il progetto di integrazione europeo trova infatti la sua ragione di essere solo nel permanere uniti – integri – malgrado le diversità esistenti; abbandonare l’Italia al suo destino, dopo il trauma della Brexit, vorrebbe dire un’unica cosa, per definizione: la fine del progetto di integrazione europea. Speriamo che il comune amore per il Vecchio Continente ci aiuti a comprendere con precisione quello che va fatto per evitarne la fine.

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