L’ultimo numero di Time con Matteo Salvini in copertina

Democrazia e silenzio degli incoscienti

Claudio Cerasa

Esiste una crisi della democrazia di cui i sovranismi sono un sintomo prima ancora che una causa. Indagini di Atlantic, Economist, Time, NewStatesman. Perché non ribellarsi contro i nemici della libertà è un lusso che l’Europa non può permettersi

Il commissario agli Affari economici dell’Unione europea, Monsieur Pierre Moscovici, ieri mattina ha parlato delle condizioni economiche dell’Italia e, come ci ha ricordato anche Mario Draghi, tira un’aria bruttina assai. Nel corso del suo ragionamento ha consegnato alle agenzie di stampa un’affermazione che farà discutere. Oggi, ha detto Moscovici, “in Europa c’è un clima che somiglia molto agli anni 30: non dobbiamo esagerare, e chiaramente non c’è Hitler, ma forse dei piccoli Mussolini sì”. Evidentemente, Moscovici ha torto quando, facendo riferimento all’Ungheria di Orbán e all’Italia di Salvini e Di Maio, disegna un filo che collega il nazionalismo degli anni 30 con il sovranismo dei nostri anni. Ma il commissario non ha torto quando invece in modo più o meno diretto ci invita a riflettere su un altro tema che in questa fase della nostra storia dovrebbe essere centrale. Un tema che coincide con una domanda precisa: esiste o no oggi una crisi della democrazia, di cui i sovranismi potrebbero essere un sintomo prima ancora che una causa?

  

L’Atlantic ha discusso di questo nell’ultimo numero del suo magazine, intitolato “Is democracy dying?”. L’Economist ha discusso di questo a giugno in un numero intitolato “How democracy dies”. Il NewStatesman ha parlato di questo nell’ultima copertina appena uscita, intitolata “The return of fascism”, dello stesso tema parla l’ultimo numero di Time con Salvini in copertina, e basta fare due salti in una qualsiasi classifica di libri stranieri per vedere che, tranne che in Italia, il tema della democrazia sotto attacco è cruciale per capire il mondo in cui viviamo oggi. Trent’anni fa, nel 1992, Francis Fukuyama dichiarava la fine della storia e il trionfo della democrazia liberale. Oggi, solo nel 2018, David Runciman ha scritto “How Democracy Ends”, Yascha Mounk ha scritto “The People vs Democracy”, Jamie Bartlett ha scritto “The People Vs Tech: How the Internet is Killing Democracy”, Steven Levitsky ha scritto “How Democracies Die: What History Reveals About Our Future”, Benjamin Carter ha scritto “Dismantling democracy”. Ed è solo un elenco riduttivo.

  

In America, naturalmente, ad aver innescato un dibattito ad ampio spettro sul futuro della democrazia sono stati non solo l’arrivo di Donald Trump alla guida degli Stati Uniti, e non solo l’esplosione dell’odio via social, ma anche alcuni dati di fatto legati all’evoluzione poco democratica di alcuni paesi che si trovano a due passi dal cuore dell’Europa, come la Turchia di Erdogan, la Russia di Putin, l’Ungheria di Orbán. (Ma c’è anche il Venezuela di Maduro). L’Economist, nel numero speciale dedicato al tema, ha segnalato che sono i numeri a dire che esiste in giro per il mondo un allarme democratico ben più grave di quelli segnalati in passato in Italia da Pancho Pardi e Gustavo Zagrebelsky, e secondo uno dei think tank coordinati dal settimanale, nel 2017, per la prima volta da anni, i paesi che hanno registrato un regresso democratico sono stati più di quelli che hanno registrato un miglioramento: 89 contro 27. Dire, come sostiene Moscovici, che in giro per l’Europa stiano nascendo nuovi tipi di fascismi è forse esagerato. Ma dire, come suggerisce l’Atlantic, che è da incoscienti essere immobili di fronte alla proliferazione di democrazie anti democratiche è qualcosa su cui varrebbe la pena riflettere anche in un paese come l’Italia, dove per la prima volta da anni, e dopo anni di al lupo al lupo, discutere di democrazia è diventato un tabù, per una ragione che in fondo è facile da spiegare: l’aggressione ai valori non negoziabili della nostra democrazia è portata avanti da coloro che per anni sono stati coccolati proprio dai farlocchi difensori della Costituzione e dunque della democrazia (avete presente i girotondi? Ci siamo capiti). L’Atlantic sostiene giustamente che viviamo “nel bel mezzo di un vasto esperimento non regolato e non sufficientemente esaminato per determinare se la democrazia liberale sarà in grado di sopravvivere alle trasformazioni anche tecnologiche dei nostri tempi”. E per capire quali sono i passaggi che portano una democrazia a diventare progressivamente illiberale bisogna individuare, come suggerisce l’Economist, almeno quattro passaggi. 

   

Nella prima fase, viene utilizzato il rancore popolare per combattere contro le élite liberali che difendono lo status quo. Nella seconda fase, i nuovi leader identificano alcuni nemici esterni da screditare, da dare in pasto agli elettori e da usare per giustificare delle trasformazioni illiberali nella società. Nella terza fase, una volta conquistato il potere, si sfrutta la paura e il malcontento per intervenire sulla stampa libera e per rendere il meno possibile imparziale il sistema giudiziario. Nella quarta fase, infine, si interviene sui diritti individuali e sullo stato di diritto, si modifica la Costituzione e si influenzano gli organi di giustizia per neutralizzare le opposizioni non gradite.

  

Le spie dell’aggressione della democrazia presenti nella stessa democrazia sintetizzano bene la ragione per cui due giorni fa il Parlamento europeo ha votato a favore delle sanzioni contro l’Ungheria. Ma per capire fino in fondo il senso della nostra riflessione, che un paese come il nostro oggi come non mai dovrebbe mettere al centro della sua agenda, è necessario far proprie le parole del direttore dell’Atlantic, che suonano più o meno così: l’obiettivo dei giornali, in una fase in cui la democrazia più che essere finita si trova sotto attacco, dovrebbe essere quello di far risorgere il primato della ragione sulla passione, quello di trovare un nuovo equilibrio tra logos e pathos, quello di rallentare quanto più possibile l’espressione diretta e caotica della passione popolare. Dire che la democrazia è in crisi solo perché le elezioni vengono vinte dai partiti non amati da coloro che si autodefiniscono élite è ovviamente una fesseria. Ma non capire che avere contemporaneamente alla guida del paese un partito che ha scelto di esportare nel nostro paese il modello di democrazia illiberale portato avanti da Orbán e un altro che sogna di esportare il modello plebiscitario della democrazia peronista aggredendo in modo esplicito la democrazia rappresentativa significa semplicemente vivere in un paese incapace di difendere i suoi valori non negoziabili.

   

Sergio Marchionne, due anni prima di morire, venne chiamato da un’università a spiegare le sfide di fronte alle quali si trova oggi l’occidente e per farlo l’ex numero uno di Fca utilizzò una parabola raccontata in passato da David Foster Wallace: “Ci sono due pesci giovani che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta e fa un cenno di saluto, dicendo: ‘Salve ragazzi, com’è l’acqua?’. I due pesci nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: ‘Ma che diavolo è l’acqua?’”. Non siamo ancora arrivati a vivere in un acquario senza acqua, senza libertà, ma proprio perché siamo ancora in tempo per renderci conto di cosa sta succedendo nel nostro mondo potrebbe essere arrivato il momento di non chiudere più gli occhi e di mettere in campo, contro la passione, un po’ di ragione. La democrazia non è in pericolo, ma gli anti democratici presenti in giro per l’Europa un pericolo lo sono eccome e non denunciarli significa essere complici di uno sfascio possibile. Che non è solo quello dell’Europa. E’ quello semplicemente della nostra libertà.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.