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Il populismo va in metrò

Giuseppe De Filippi

Da Roma a Milano via Napoli: dall’inferno al paradiso, o quasi. Modelli e chiacchiere di mobilità urbana

Roma, Napoli e Milano, attacco quasi stendhaliano ma si intende parlare di autobus e metropolitane e, per analogia, di scelte politiche e loro realizzabilità, nel luogo, i mezzi pubblici, in cui il populismo e il popolo sono troppo vicini per andare d’accordo. Oppure, per visitare altre parti letterarie e restando ambiziosi, paradiso inferno e purgatorio. L’inferno, facile, è quello con le fiamme e quindi con i flambus, gli autobus al rogo, che caratterizzano Roma e la sua Atac dando alla capitale un primato mondiale nella combustione stradale autonoma di mezzi pubblici. E l’inferno è anche il luogo in cui si scende e poi non si risale (tranne appunto le eccezioni cronistiche e letterarie), il lago d’Averno è la fermata della metropolitana di Repubblica, chiusa da tempo, dopo una discesa agli inferi in favore di smartphone in cui un gruppo di tifosi russi e di commuter romani hanno rischiato l’ospedale. A quella chiusura ne sono seguite altre, sempre per complicazioni di scale e altri impianti di supporto, con la ormai notissima triade delle non fermate centrali: Spagna, Barberini, Repubblica, cui se ne starebbero per aggiungere altre. Il paradiso, dove ci si deve lamentare solo per le frenate brusche (però attenzione perché qualche passeggero si è fatto male e questi freni automatici andrebbero un po’ regolati), è palesemente Milano, dove appunto forse si frena troppo perché si corre tanto, e si paga come si vuole, anche, da poco, appoggiando la carta di credito, sì anche quella del circuito di solito respinto dal piccolo commercio. E quindi è la metropolitana a Milano ad accettare tutte le carte, diversamente dai taxi, oltre a dare tante e ben pensate informazioni, proporre soluzioni molto varie per biglietti e abbonamenti, regalare monopattini elettrici agli abbonati, innovare con la nuova linea senza pilota, educare a far scendere e a tenere la destra sulle scale, integrare il servizio con quello (meno efficiente) di Trenord.

 


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L’inferno, facile, è quello con le fiamme e quindi con i flambus, gli autobus al rogo. Il purgatorio, forse ci stupisce, è Napoli

Il passaggio brusco da un modo a un altro di fare impresa è l’unica soluzione quando ci si incarta nell’alto indebitamento

Il purgatorio, forse ci stupisce, è Napoli. Perché lì si è peccato nella gestione del trasporto pubblico, certo, ma con meno protervia del peccatore romano, con più cuore, più buona disposizione, più ingenuità. E Napoli ha la speranza di emendarsi, perché la legge, fatalmente, impone di rimettere tutto a gara e di farlo con regole del gioco con cui si possono davvero selezionare i migliori gestori e sottrarre quindi alle influenze di piccoli e grandi poteri locali. Ma il passaggio dal purgatorio al paradiso per Napoli sarà qualcosa di epico, lo scontro esploderà tra poco e andrà in crescendo. Perché il risultato della gara potrebbe portare verso quella che verrà etichettata, che paura, come privatizzazione, la parola più detestata dalla politica locale e dal sindaco Luigi De Magistris (che però è capace di sorprendere) e dal partito che ha preso più voti alle ultime politiche, il Movimento 5 stelle, campione (chissà perché poi) di statalismo e collettivismo. Insomma, ciò che non è riuscito nell’inferno romano, che d’altra parte è luogo irredimibile, potrebbe riuscire a Napoli. Ricorderete il tentativo di mettere a gara l’erogazione del servizio di trasporto pubblico di Roma passando per un referendum che avrebbe dovuto poi impegnare il comune ad avviare affidamenti competitivi, con il metodo standard europeo, riaprendo quindi a contributi esterni la fornitura di servizi in cui ci sarebbe tanta qualità da portare e tanto valore da estrarre. L’iniziativa dei Radicali romani si è infranta contro una bassa partecipazione al voto, poco sopra al 16 per cento, ma se ne riparlerà e sempre di più, perché dai giorni della campagna referendaria (osteggiata in tutti i modi dal comune e quasi silenziata) e del voto la qualità dei servizi Atac è perfino peggiorata.

 

La resistenza dell’opinione pubblica romana ora è testata a livelli di pressione vicini a quello di rottura. Le chiusure delle fermate centrali della metropolitana stridono con la Ztl più grande d’Italia, che diventa irraggiungibile, e la zona non è solo pittoresca e turistica o dedicata allo shopping (i negozianti della zona Repubblica sono però i più arrabbiati di tutti e il loro comitato è molto attivo, ma anche completamente inascoltato in comune), però è anche la zona in cui lavorano migliaia di persone, tra ministeri, istituzioni, aziende, associazioni. Commuter ora affidati a inefficienti servizi alternativi via bus, sono riconsegnati quindi al traffico auto da cui la metropolitana li aveva salvati.

 

A Roma di quella buona idea referendaria purtroppo non si è fatto nulla di concreto, resta l’iniziativa politica, tuttavia priva di sufficiente consenso. E’ l’inferno, appunto, il male senza prospettive. Inchiodati, come sono i romani, alle parole combattive e laconiche assieme usate dalla sindaca per celebrare l’insuccesso del tentativo di riformismo radicale referendario. “Atac resta ai cittadini, resta pubblica”, disse Raggi. Ma non proprio dei cittadini è l’azienda, anche un po’ del tribunale e dei grandi creditori, perché, altro grande successo, Atac agisce in situazione di concordato con continuità, cioè ha evitato la liquidazione ma non il riconoscimento di una situazione assimilabile al fallimento, sulla quale però si è indulgenti e grazie alla buona disposizione dei creditori si può andare avanti.

 

Certo, senza grandi strategie, perché il debito comunque incombe. Ma Raggi aveva difeso l’intangibilità di Atac anche in passato, rivendicando una specie di proprietà pubblica più pubblica di altre. Perché quando tra il 2017 e il 2018 si era da poco insediata, e in cima al tetto del Campidoglio la banderuola degli assessori e dei capi di gabinetto e capi staff e bracci destri girava senza pietà, Raggi respinse orgogliosa le proposte di collaborazione nel servizio di trasporto locale che arrivavano da Fs. Quella stessa società cui ora è stato ordinato di salvare l’Alitalia, e non sa come fare, è stata invece messa alla porta quando si trattava di salvare Atac e metro, tram e bus romani, per i quali, invece, aveva competenze, soldi e un piano anche interessante. “Fs guardi in casa sua – disse la sindaca sprezzante – Atac deve restare pubblica e comunale e non di un eventuale pubblico di rango più elevato”.

 

Frasi misteriose a prima vista, con quel comunale che, usato per rafforzare il concetto di pubblico, ha un suono (anche bello) medievale ma di poca utilità, mentre la teoria del “pubblico di rango più elevato” andava consegnata forse a psicologi più che a economisti o esperti di diritto amministrativo o di enti locali.

 

Tra l’altro nel piano di Fs (a proposito: oltre ad Alitalia, la nuova gestione di nomina gialloverde quindi forse gradita ora a Raggi, magari intende ripescare quel piano per il trasporto pubblico romano?) c’era anche l’investimento per mettere finalmente in funzionamento l’anello ferroviario, il ring che circonda Roma e che potrebbe essere collegato con la rete di metropolitane e ferrovie regionali, ma appunto anche quello ormai è consegnato ai cassetti.

 

Torniamo quindi a Napoli e al super match che si prepara e che farà parlare l’Italia. Perché l’ultimo giorno del 2019 scadrà il contatto tra la Napoli Holding (società in house del comune di Napoli che gestisce le partecipazioni comunali) e la società dei trasporti ANM, da anni anch’essa in condizione di concordato, come la romana Atac, e a bandire la gara successiva, su scala internazionale, per l’affidamento del servizio del trasporto pubblico locale non sarà il comune ma la regione, guidata dal tostissimo Vincenzo De Luca. Il fronte comunale è schierato ovviamente contro la calata dei possibili gestori privati o addirittura privati ed esteri, ma non ha molte armi, perché chiedere la riconferma dell’affidamento in house, cioè senza gara, direttamente alle strutture interne, potrebbe essere complicato e rischioso, sia per la situazione societaria ancora molto limitata dal concordato preventivo, sia per le condizioni delle casse aziendali vicine al dissesto o comunque non in grado di supportare investimenti rilevanti (con l’aggiunta del solito rimpallo tra regione e comune su chi dei due sia meno assiduo nei finanziamenti). E ci sarebbe anche da fare i conti con l’opinione pubblica.

 

A Roma la sindaca è convinta di avere consenso dichiarando trionfalmente che l’Atac resta ai romani, e vabbè, contenti loro, ma potrebbe ben succedere che invece i napoletani, più pragmatici, dovendo usare l’autobus per andare da un posto all’altro e non come asset patrimoniale da cui sentirsi rassicurati, scelgano invece diversamente e guardino con favore e interesse ai nuovi gestori, ancorché privati e interessati a non perdere soldi. All’orizzonte si staglia la tedesca Arriva, dal nome quindi che indica una fatale incombenza, uno dei gruppi più forti d’Europa nella gestione del trasporto pubblico. Roma ancora una volta ci insegna qualcosa, a rovescio però, perché Arriva è direttamente controllata dalla società tedesca delle ferrovie, insomma è quella cosa che poteva nascere se alle Fs italiane la sindaca gelosa della purezza della sua Atac pubblica e comunale non avesse detto di no. A Napoli, invece, se effettivamente De Luca avrà il coraggio e la forza di andare alla gara internazionale potrebbero vincere i tedeschi controllati da DB (Deutsche Bahn) e provare a trasformare il servizio locale partendo, tra l’altro, da una situazione di zero debiti e con buone capacità di investimento.

 

A Roma di una buona idea referendaria non si è fatto nulla di concreto, resta l’iniziativa politica, tuttavia priva di consenso

Il populismo all’inferno sta bene, prospera, in purgatorio rivela la sua inagibilità, in paradiso non lo fanno proprio avvicinare

In città un argomento per le inevitabili polemiche (a dire poco, già immaginiamo settimane di scioperi contro la privatizzazione e qualcuno avrà anche il coraggio di parlare di svendita e di favoritismi) potrebbe essere quello dell’aeroporto di Capodichino, passato nel 1997 alla gestione degli inglesi di BAA, con ampia esperienza mondiale nella gestione di scali aerei, e che da allora ha recuperato enormemente in efficienza e in redditività. Anche allora si scioperò e si protestò, con straordinaria durezza. Anni dopo sono stati gli stessi leader sindacali dell’epoca ad ammettere di non aver compreso bene la situazione e di aver osteggiato un progetto che invece ha funzionato benissimo.

 

“La prima botta – hanno raccontato anni dopo – fu da sei giorni di fila per 24 ore al giorno, con 43 denunce per interruzione di pubblico servizio, ma a quella seguirono poi altre serie di scioperi”. Tutto poi si risolse e Capodichino, grazie a una intuizione ormai di più di venti anni fa, cominciò a migliorare bilanci e prestazioni: prima era un suk adesso è un aeroporto, ci raccontano, sinteticamente, in città. Lo sviluppo, stavolta, potrebbe essere simile, sia pure con tutte le difficoltà della gestione di un servizio non concentrato in uno spazio definito, come l’aeroporto, ma esteso a tutta la città, dovendo fare anche i conti con un’alta evasione del pagamento dei biglietti e con altre cattive abitudini, oltre che con relazioni sindacali prevedibilmente complesse. Nello stesso tempo però si avrebbe un’occasione di trasformazione per l’organizzazione cittadina, seguendo il contagio positivo che il miglioramento di un servizio così esteso e capillare può aver sul resto della macchina amministrativa comunale.

 

Ma il salto gestionale, il passaggio brusco da un modo a un altro di fare impresa, è l’unica soluzione quando ci si incarta nella spirale di alto indebitamento, peggioramento qualitativo, deterioramento delle relazioni industriali. E’ il quadro, lo ripetiamo, dell’Atac. Ed è invece ben diversa la situazione della milanese Atm. Ancora lì siamo, il populismo all’inferno sta bene, prospera, in purgatorio potrebbe rivelare la sua inagibilità, in paradiso non lo fanno proprio avvicinare. Fino a riuscire, come sta succedendo a Milano, ad alzare il prezzo dei biglietti, arrivando a 2 euro (Roma è a 1,5 e Napoli a 1,1 euro).

 

Sembra superata la resistenza della regione, pronta al sì, con avvio dei rincari dopo l’estate, e così il livello di copertura delle entrate dai biglietti sarà proporzionato in modo sano rispetto a un ambizioso piano di investimenti (unico modo per continuare ad avere un buon servizio), mentre ovviamente restano tutelate le fasce a basso reddito con abbonamenti a prezzo ridotto. La partita sul costo dei biglietti milanesi si è risolta rapidamente, con qualche tensione ma restando nella razionalità degli argomenti, tra un sindaco del Pd e anche personaggio in vista della politica nazionale del centrosinistra e un presidente di regione leghista. A Napoli si annuncia un duello appassionante (e ripetiamo forse anche sorprendente) tra il sindaco che ha il suo movimento politico con le iniziali del cognome e un energico presidente del Pd fortemente caratterizzato in proprio. Una partita da seguire, perché ci dirà cosa può essere del populismo messo alla prova della fermata del bus. A Roma non ci sono partite né sfide, c’è Raggi sola sul tetto e sola negli studi televisivi, dove da sola si intervista e si dice fiera della pubblica e comunale Atac, dei suoi debiti, del suo concordato, immersa nel populismo, con le stazioni chiuse dai nastri adesivi gialli su cui è scritto Roma Capitale.

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