Foto LaPresse

Crisi senza soluzioni

Da Alitalia a Blutec, riemergono i guai ma senza competenza per sistemarli

"Alitalia? Vedremo”. Non è un buon segnale se si esprime così Giovanni Tria, ministro dell’Economia che direttamente e come azionista di Ferrovie e Poste italiane, alle quali nella maggioranza gialloverde si vorrebbe aggiungere perfino Fincantieri, dovrebbe dare il maggior contributo al salvataggio sovranista dell’azienda. I partner privati sono tuttora incerti e divisi: EasyJet vorrebbe separare il lungo raggio (da concentrare a Fiumicino) dal medio (che dovrebbe far base a Malpensa, dove la low cost ha il proprio terminal), Delta è contraria, entrambe scaricano sul governo 2-3 mila esuberi in aggiunta ai 1.500 già in cassa integrazione. Lufthansa è ancora più drastica; né l’attendibilità italiana in Europa esibita sulla Tav favorisce una trattativa con il gruppo tedesco. E’ ormai impossibile chiudere il dossier Alitalia entro il termine del 30 marzo; il prestito ponte di 900 milioni è già prorogato di due anni mentre addizionali e tasse d’imbarco su ogni biglietto dall’Italia porteranno nelle casse dell’Inps circa 250 milioni. Anche in questo caso Lega e 5 stelle mirano allo slittamento a dopo le europee, ma i sindacati premono per aprire al ministero dello Sviluppo economico un vero tavolo di crisi accanto a quello industriale. Il titolare del Mise Luigi Di Maio promette “esuberi zero” (come per l’altra vertenza di queste ore, sulla Sirti) e il paradosso è che intanto il traffico aereo continua a crescere in Europa e soprattutto in Italia: del più 9,8 per cento nel 2018 hanno beneficiato utili e dividendo di Enav, l’azienda quotata di assistenza al volo. Dunque il controllore privatizzato genera profitti mentre Alitalia, compagnia di servizi, richiede salvataggi pubblici. Il tavolo Alitalia va ad aggiungersi a quello ben più ampio sulle costruzioni, con 620 mila posti di lavoro persi e 300 appalti pari a 69 miliardi bloccati. Come denunciano Ance, l’associazione dei costruttori, e sindacati, che minacciano la protesta dei nastri gialli (biodegradabili) la vicenda Tav ha fatto cadere la maschera ai partiti del No: il M5s, certo, ma anche la Lega salviniana che finora ha accettato la paralisi perfino delle opere che riguardano i suoi territori, Lombardia, Veneto e Liguria, salvo ricredersi a due mesi dal voto.

 

Ma non è tutto.

 

Al ministero dello Sviluppo sono aperte altre 152 vertenze con 230 mila addetti: Pernigotti, Piaggio Aero, Bombardier, Firema Trasporti, Aferpi Piombino (siderurgia), Alcoa, Hag, Novelli, Iperdì sono i nomi più noti, ai quali si aggiunge ora un settore che negli ultimi anni ha generato profitti e occupazione: la telefonia. I 29 mila esuberi programmati da Tim e gestiti per vie interne minacciano di aumentare se continua la guerra interna all’ex incumbent, fin qui italo-francese ma che potrebbe dividere gli alleati Cassa depositi e prestiti e Elliott. La questione riguarda la rete in fibra e l’ipotesi di accordo con Open Fiber genererà sovrapposizioni (oltre a penalizzare Elliott che puntava a monetizzare lo scorporo). Nella parte mobile l’azienda è rimasta penalizzata dall’asta 5G che ha fruttato allo stato 6,55 miliardi ma che sta facendo rifare i conti alle compagnie. Sirti, infrastrutture di rete, intende licenziare 833 unità, il 23 per cento: i due incontri all’Assolombarda e ieri al Mise non sono andati bene. Anche Vodafone ha messo mano a una ristrutturazione in Italia per 1.160 esuberi su 6.500 dipendenti. Non solo per i suoi 2,4 miliardi spesi nell’asta 5G ma anche per le prime perdite nei servizi (meno 8,4 per cento dei ricavi nel settore mobile). Wind Tre e Fastweb (9 mila dipendenti) minacciano di fare altrettanto anche per i ritardi dei pagamenti della Pubblica amministrazione. Finora Di Maio ha risposto ruotando dieci direttori generali su quindici “perché servono cambiamento e aria fresca”, a partire dal capo della task force sulle crisi Giampietro Castano. L’aria nuova però sembra affidarsi a vecchi strumenti: l’eterna Cdp e Invitalia (che con il precedente governo aveva gestito il passaggio dell’ex Fiat di Termini Imerese alla Blutec, di cui sono stati arrestati i vertici); ma soprattutto Di Maio profetizza una Iri-tech, una finanziaria pubblica con dotazione di un miliardo. Non sembrano gli investimenti produttivi che servono e che Salvini evoca da quando si è fatta slittare la Tav. Altre idee?