Luce verde sul viadotto sul Polcevera. Genova, settembre 1967 (Foto archivio LaPresse)

Restauriamo il ponte Morandi invece di piangerne la morte annunciata

Luca Zevi

Nessuno pensa a demolire i monumenti antichi colpiti da sismi, alluvioni o crolli, ma si punta a consolidarli. Perché non fare la stessa cosa col viadotto di Genova?

Al direttore - Già nel pomeriggio del 14 agosto, mentre sembra assodato che il crollo sia stato provocato dalla rottura di uno strallo a causa della mancata manutenzione, cominciano a circolare voci su presunta “tara genetica” del Viadotto Morandi, attribuibile direttamente a colui che gli ha dato la luce – nonché il nome – nel 1967: singolare capovolgimento, in nome del quale il collasso del “paziente” non va ascritto a carenza di cure preventive, ma alla sua “cattiva costituzione” fisica. Ne discende che, trattandosi di un “essere inferiore”, non ci si affretta a trasferirlo nel reparto di terapia intensiva, come sarebbe ovvio, ma si decide di eliminarlo in virtù della considerazione che, se è caduto in malattia, “è colpa sua”, della sua origine.

 

Per riuscire ad arrampicarsi su questo specchio davvero balordo, contro il povero viadotto si tenta di scatenare l’opinione pubblica genovese, che in realtà nutre il solo desiderio di vedere ripristinato al più presto il sistema della mobilità urbana e rientrate nelle loro abitazioni le famiglie evacuate per doverosa precauzione.

 

Viene sbandierata un’irrecuperabilità dell’infrastruttura, che nessuna indagine scientifica ha seriamente diagnosticato, per attribuire al “popolo” – che l’ha percorsa fino a qualche ora prima – una sfiducia totale in qualsivoglia ipotesi di consolidamento e restauro delle parti ancora in essere (ovvero della quasi totalità della struttura, stante che il crollo ha interessato appena il 20 per cento del suo sviluppo lineare): la “comunità genovese”, a detta dei decisori, adesso è indignata non contro coloro che con l’incuria hanno causato la tragedia, ma contro il viadotto “malnato e untore”.

  

Di più, alla faccia di Primo Levi e della sua ammonizione “chi non ha memoria del passato è condannato a ripeterlo”, si proclama che, sempre per acconsentire alla presunta furia popolare, bisogna cancellare ogni traccia del colpevole – sempre il viadotto – per non turbare la quiete dei passanti futuri. Di fronte a questa damnatio memoriae, viene da domandarsi perché, nel corso degli ultimi trent’anni, si sia profuso un così grande impegno nell’elaborazione e nella trasmissione della memoria di altre tragedie che hanno insanguinato l’Europa nel corso del XX secolo.

  

Tutto ciò sembrerebbe attenere alla sola sfera civile, che pure è rilevante, mentre interessa pesantemente la collettività genovese sotto vari aspetti: la circolazione urbana, anzitutto, che da un’operazione complicata come quella che si propone – a partire dalla drammatica difficoltà della demolizione – ricaverà solo anni e anni di ulteriore paralisi; in secondo luogo la distruzione di un patrimonio edilizio ingente rappresentato dai palazzi che dovranno essere eliminati per far posto al “sacrificio” del viadotto; in terza istanza il prestigio culturale della città, sul quale calerà per sempre l’ombra della cancellazione di un bene culturale di altissima qualità, testimone eccellente della “rivoluzione industriale italiana”; e ancora la consumazione di un’ingiustizia profonda, che scarica sulla vittima – il viadotto – la responsabilità del trauma, sollevandone di fatto i veri colpevoli; infine un ulteriore oltraggio alle opere rappresentative del “trentennio d’oro” della democrazia italiana – 1945-75 – sempre più schiacciato fra il culto indiscriminato delle architetture del Ventennio, da un lato, e la liberistica mediocrità del presente, dall’altro.

  

Un errore capitale

La sensazione più o meno consapevole che, nella risposta alla tragedia del 14 agosto, si stia compiendo un errore capitale sta animando una costellazione di reazioni all’ineluttabilità della soluzione che viene avanzata ad arte come l’unica possibile.

  

E’ importante che tali reazioni si coagulino in un’opposizione forte a una prospettiva quanto mai dannosa per la popolazione genovese, che ha già pagato un prezzo assai elevato, e per la cultura italiana, che nel restauro degli edifici danneggiati da sinistri presenta un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale. Tale eccellenza non deve riguardare soltanto i beni culturali storici, ma anche quelli moderni, che proprio per non essere troppo numerosi, vanno rigorosamente salvaguardati.

   

Così come nessuno pensa a demolire i monumenti antichi colpiti da sismi, alluvioni o semplici crolli (come recentissimamente il tetto della chiesa romana di San Giuseppe dei Falegnami), ma si punta a consolidarli e restaurarli, analogamente bisogna procedere al consolidamento e al restauro del viadotto Morandi, reintegrandone il segmento collassato con un ponte nuovo chiaramente distinguibile nelle forme e nei materiali, un approccio che scaturisce dalla più avanzata Teoria del Restauro, mirata alla conservazione rigorosa di quanto il passato ci ha tramandato e all’esercizio della creatività contemporanea non in oltraggio, ma in continuità dialettica con la storia.

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