Genova, crollo Ponte Morandi (foto LaPresse)

Cosa insegna la tragedia del ponte Morandi

Ci sono gli strumenti amministrativi e giudiziari per accertare le responsabilità dell’incidente del ponte a Genova. Toninelli in audizione, "la grande opera di cui ha bisogno il paese è la manutenzione". Autostrade anticipa il governo e pubblica la Convenzione

"Bisogna smettere di inseguire le emergenze e bisogna ricominciare a programmare gli interventi per evitare che eventi di questo genere vengano a determinarsi". Il ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli in audizione alle commissioni riunite di Camera e Senato in seguito al crollo del ponte Morandi a Genova, sostiene che "la prima vera grande opera di cui ha bisogno questo paese è un imponente e organico piano di manutenzione ordinaria e straordinaria". In mattinata Autostrade ha anticipato il governo e pubblicato tutti i documenti della Convezione Unica col Mit, una risposta a "polemiche e strumentalizzazioni". La società sottolinea come "nessuna norma interna o prassi internazionale prevede la pubblicazione di tali documenti. Ciò anche per assicurare parità di condizioni sul mercato tra i vari operatori del settore, anche per il caso di nuove procedure di affidamento". Per Toninelli, la pubblicazione dei documenti è l'effetto "dell'azione politica del governo del cambiamento".


    

Professor Sabino Cassese, che cosa insegna la tragedia del ponte Morandi a Genova, il 14 agosto scorso?

Innanzitutto, insegna che il nostro ordinamento è dotato degli anticorpi per accertare le responsabilità. Sono iniziate, a quel che si apprende dai mezzi di comunicazione, due procedure, una amministrativa, una giudiziaria. Ambedue le procedure si svolgono secondo sequenze predeterminate (indagini, accertamenti, contestazioni, controdeduzioni, diffide, sanzioni). La procedura amministrativa ha tempi brevi, e così si spera quella giudiziaria. Spetta a tecnici indipendenti e ai magistrati di accertare e stabilire cause e responsabili. Prima lezione: non bisogna fare processi sommari, occorre rispettare l’indipendenza dei magistrati e contare sulla competenza dei tecnici. 

   

Indipendentemente dalle conclusioni delle due procedure, in astratto, è bene che strade e autostrade siano in concessione o che siano gestite dallo stato?

I poteri pubblici, in tutto il mondo, hanno seguito ambedue le forme di gestione, quella indiretta e quella diretta. Non c’è una risposta valida per tutti i casi e le circostanze. Un esempio è quello delle ferrovie, che sono state in concessione a molte società diverse, in Italia, per cinquant’anni. Nel 1905 le concessioni ferroviarie vennero riscattate e Giovanni Giolitti mise a capo delle ferrovie, diventate statali, Riccardo Bianchi, un ingegnere che diventò il “dittatore” delle ferrovie italiane, dopo essere stato a capo delle ferrovie sicule. Le prime concessioni autostradali risalgono al 1922.

  

Perché viene preferita l’una o l’altra gestione?

Strade ferrate, autostrade, porti, aeroporti, richiedono forti investimenti, specialmente nella fase iniziale. Per cui risulta più conveniente contare sulla capacità di privati di raccolta di fondi, pagando il costo della raccolta e dell’investimento con i pedaggi. Negli Stati Uniti vi sono pedaggi anche per il passaggio sui ponti, come sa chiunque sia andato a New York. Nel caso italiano, dal 1950 fino al passaggio delle azioni in mano private, c’era un doppio legame tra stato e società di gestione: una partecipazione azionaria, tramite l’Iri, e una concessione del ministero dei Lavori pubblici (poi ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti). In alcuni casi di società con partecipazione pubblica in concessione, si stabiliva anche un legame tra i due tipi di interventi, che ha attirato l’interesse dei giuristi (io stesso me ne sono interessato in un libro del 1962).

 

Come è stata la gestione pubblica?

Un grande successo iniziale, con la guida di Fedele Cova. Qualche dato: 755 km di autostrade, 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 740 opere minori, 57 raccordi solo sull’Autostrada del Sole. Una media di 94 km di autostrada finita per anno, dal 19 maggio 1956 al 4 ottobre 1964. Tutto questo su uno dei tracciati più difficili del mondo. Con gravi sacrifici umani, perché durante la costruzione persero la vita 74 persone. Su questa epopea Enrico Menduni ha pubblicato un libro (“L’Autostrada del Sole”, il Mulino, 1999), significativamente inserito nella collana sull’identità italiana, e Francesco Pinto un romanzo (“La strada dritta”, Mondadori, 2011). Se legge i dibattiti parlamentari dell’Ottocento sulle concessioni ferroviarie, nota che la rete ferroviaria veniva considerata un modo per unire l’Italia. Lo stesso può dirsi per quella autostradale, tanto che vi sono ormai persone che vivono a Bologna e lavorano a Milano, grazie alla rete.

 

E poi?

Il successo ha portato all’affidamento in concessione di altri tronchi autostradali, sia alla stessa società (che ha ora circa tremila km di autostrade), sia ad altre società, frequentemente costituite da enti locali o da questi promosse, per poter rendere i trasferimenti più agevoli ai cittadini. In questo caso, valeva ancor di più l’argomento del finanziamento privato, per le condizioni di storica carenza finanziaria delle amministrazioni locali.

 

Sarebbe ora opportuno ritornare alla gestione pubblica?

Non è facile rispondere, perché dipende dalle condizioni. Innanzitutto, si possono revocare tutte le concessioni o solo alcune? Per costituire una società pubblica, che se ne accolli la gestione, dotandola dei mezzi finanziari necessari? Oppure per fare nuove gare? Come vede da queste domande, prima di entrare nei dettagli dei modi per revocare o dichiarare la decadenza, occorre fare scelte di fondo, relative all’ampiezza dell’intervento, alle modalità finanziarie, agli strumenti disponibili. Alle privatizzazioni si è arrivati dopo attenti studi, considerando i mercati e le condizioni delle aziende da mettere sul mercato. Per iniziare ora un moto contrario richiede attente valutazioni di costi e benefici.

 

E quali sono gli strumenti disponibili?

Posso farle un elenco, non una radiografia delle risorse disponibili, che sarebbe troppo lungo. Le regioni, innanzitutto, visto che i lavori pubblici sono stati trasferiti a questi enti. Vi sarebbe però la controindicazione di opere d’interesse nazionale, pluriregionali, in mano a enti la cui sfera di azione territoriale è limitata a una regione. Poi, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che è, però, stato depauperato di risorse umane e finanziarie proprio dopo l’istituzione delle regioni, e che perderebbe la funzione di controllo, non potendo gestire e controllare allo stesso tempo. L’Anas, nata nel 1928 come organo statale, diventata nel 1996 ente pubblico economico, nel 2002 società per azioni, nel 2018 parte del gruppo Ferrovie dello stato (ma l’attuale governo vuole tornare indietro). L’Anas ha 6 mila dipendenti e gestisce 26 mila km di strade e autostrade, 13 mila ponti e viadotti, 1800 gallerie. Come le altre partecipate pubbliche, tuttavia, è sottoposta a controlli prevenivi che ne intralciano l’attività. Inoltre, anche nel caso di ponti in gestione dell’Anas si sono verificati gravi inconvenienti.

 

La conclusione?

Né io, né altri abbiamo la bacchetta magica. Si tratta di decisioni importanti e complesse, che vanno studiate attentamente, dopo che le due indagini saranno giunte al termine. Principalmente, va valutata la disponibilità di strumenti gestionali adatti da parte dello stato. Io ritengo che non li abbia.