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Non serve ricostruire l'Italia

Renato Brunetta e Giorgio De Rita

Evviva l’economia della manutenzione. Il disastro del ponte Morandi ci ricorda perché l’Italia non sarà mai al sicuro con politici inefficienti e ostaggi del consenso

La mattina del 28 dicembre 1908, alle 5,20, i sismografi di tutta Italia registrano una scossa di magnitudo 7.2 nello Stretto di Messina. In soli 37 secondi il centro storico della città siciliana, numerose città limitrofe e parte di Reggio Calabria sono rasi al suolo. Dopo pochi minuti tre terribili maremoti, con onde che superano i dieci metri, devastano le coste della Sicilia orientale. Le stime parlano di circa 100.000 morti e di danni incalcolabili, alle abitazioni, al patrimonio culturale, all’economia, allo sviluppo. Le coscienze sono scosse: articoli, dibattiti, discussioni parlamentari, una compatta solidarietà nazionale e internazionale per portare aiuto, per donare, per soccorrere, per affrontare le tante emergenze, per iniziare a ricostruire. Una promessa solenne segna l’azione politica e resta scolpita nella storia del paese: ricorderemo questa data per sempre! Da allora molte altre date si sono aggiunte nell’agenda dei ricordi e dei drammi che la memoria è chiamata a tenere a mente. Una agenda però nascosta in troppi armadi polverosi è una memoria sempre più sterile e sbiadita. La natura sa colpire duro nel nostro paese, ma sembra che poco sappiamo imparare dall’esperienza.

 

Una valutazione della presidenza del Consiglio dei ministri indica in circa 4 miliardi di euro, in media all’anno, il danno che, dal dopoguerra ad oggi, i fenomeni sismici, franosi e alluvionali hanno arrecato al nostro paese, con valori in crescita nel tempo. Si tratta a nostro avviso di una stima fin troppo prudente, soprattutto perché non tiene in conto gli effetti di medio e lungo periodo sui sistemi economici e produttivi, sui beni culturali, sul turismo. I danni non sono solo, e non sono tanto, nel valore del patrimonio fisico da ricostruire o da ristrutturare quanto nelle ferite alle comunità colpite che impiegano tempo a guarire e che permangono nel tempo. Spesso per decenni, a volte per sempre.

 

I fatti drammatici di queste settimane (dalle montagne della Valle d’Aosta a quelle della Calabria; dalle strade del Nord alle località turistiche del Mezzogiorno) aprono nuove ferite e ulteriori testimonianze di come la fragilità del territorio italiano sia questione nota, a lungo e in profondità dibattuta, con chiare responsabilità umane e politiche, con risorse destinate in misura sempre rilevante e con risultati troppo sovente marginali. E di come la reale tutela del patrimonio e del territorio sia nella sostanza un problema rimosso.

 

La tragedia di Genova aggiunge un ulteriore tassello in un quadro che ogni giorno sembra essere più preoccupante: non solo i fenomeni naturali e la cattiva pianificazione e manutenzione nell’uso del territorio mettono a repentaglio la vita di tante persone inermi, anche le infrastrutture, le reti, le strade, i ponti, le gallerie sono fonti di pericoli mortali indipendentemente dalla brutale devastazione prodotta dai fenomeni naturali: anche la scarsa cura dei manufatti dell’uomo concorre a incrementare la terribile fragilità di questo meraviglioso nostro paese.

 

Lo scorso anno l’attenzione si è concentrata prima su Rigopiano, poi sulla crisi idrica e sullo spreco di una risorsa così preziosa come l’acqua, sul terremoto di Ischia, sull’alluvione di Livorno, sull’emergenza incendi in provincia di Torino, sui ponti in manutenzione che crollano sopra le autostrade. Grandi dibattiti, discussioni al calor bianco, aspre contrapposizioni, bandiere ideologiche da sventolare, opinioni da mettere in campo. E poi via, si torna al quotidiano.

 

La media di perdite dei tanti spezzoni della rete idrica nazionale, solo per fare un esempio, si attesta intorno al 40 per cento e il fabbisogno per il rinnovo e la modernizzazione delle reti per la distribuzione dell’acqua supera i cinque miliardi di euro all’anno. Una serie di problemi di grande rilevanza, di significativo impatto economico e per il lavoro, un’occasione per ripensare alla radice tutto l’assetto di gestione dei beni pubblici: dalla regolazione del mercato alla finanziarizzazione degli interventi, dal ruolo del privato e del sistema delle concessioni al ruolo del decisore politico. Peccato che, a quanto pare, passato il caldo è passato anche il problema.

 

Lo scorso 24 agosto è stato il secondo compleanno dal terremoto nel centro Italia. Da allora la terra continua a tremare con oltre 100 terremoti di magnitudo almeno pari a 4,0 sopportati nei 140 comuni dalle circa 600.000 persone già duramente provate dal sisma del 2016. L’emergenza è stata affrontata con la consueta straordinaria capacità, con competenza, organizzazione, solidarietà. Poi, rapidamente, il silenzio.

Crediamo che la grande attenzione mediatica successiva al crollo del ponte sul fiume Polcevera a Genova, il valore simbolico dei monconi rimasti sospesi nel vuoto ed economico nell’impegno a ricostruire siano una ulteriore occasione per ripensare alla radice la cura e la manutenzione del nostro territorio e delle nostre reti e infrastrutture. E che il cuore del dibattito sia proprio su come contrastare la consueta chiusura del sipario.

 

I temi sono tanti e non è semplice scegliere su quale fare un approfondimento. Un punto però sembra ricorrere sempre, quasi un pensiero dominante. Tutto questo è prima di tutto un problema politico e come tale va affrontato. Nelle sedi della politica, con le regole della politica, con il linguaggio della politica. Certo poi l’intendenza dovrebbe seguire (il che in genere è tutt’altro che scontato): la burocrazia, l’azione amministrativa, le autorità indipendenti di regolazione, l’uso intelligente delle nuove tecnologie, gli avvocati e i consulenti legali, i pianificatori finanziari e i consulenti d’impresa verranno dopo.

 

La politica deve farsi carico di mutare fin dalle radici il suo modo di affrontare le tante emergenze manutentive dell’Italia sfuggendo alla logica consolidata del facile consenso raccolto con le promesse di nuovi interventi, di nuove infrastrutture, viadotti, gallerie che poi inesorabilmente sono lasciate al loro naturale degrado in vista di nuove promesse, nuove meraviglie della tecnica e dell’ingegneria, nuove emergenze da superare.

 La cura costante, il progressivo adeguamento tecnico e funzionale, le manutenzioni ordinarie e straordinarie, si sa, non lasciano molto spazio a dividendi politici. Il lavoro serio e costante del giorno per giorno non colpisce l’opinione pubblica e troppo spesso non interessa al decisore pubblico. Il quale, al contrario, preferisce voltarsi dall’altra parte e aspettare una nuova emergenza da cavalcare piuttosto che prevenire nuovi e ulteriori disastri.

 

Non mancano gli esempi e non manca la consapevolezza generale dei tanti problemi sul tappeto: l’adeguamento degli edifici e degli impianti delle scuole, degli immobili pubblici, dei musei, dei luoghi di culto come anche del patrimonio abitativo, delle strade, degli alvei dei fiumi. Tutto dimostra come si preferisce evitare ogni decisione di messa a norma e in sicurezza dei luoghi che ospitano il nostro vivere quotidiano. Per la prevalente ragione che la manutenzione non porta consenso.

 

Nei primi mesi del 1988 il Censis ha pubblicato un breve documento dal titolo: “Produrre non basta - Un dossier sulla manutenzione”. Quel testo era la sintesi di una serie di seminari di approfondimento coordinati da Mauro Ferrara, direttore di ricerca del Censis e da uno di noi (Renato Brunetta, allora docente di Fondamenti di economia alla Facoltà di Architettura dell’Università di Venezia). In quegli anni la manutenzione, o meglio l’economia della manutenzione, era al centro del dibattito pubblico. Le motivazioni di quell’attenzione così alta erano diversi. Proviamo a riassumerli brevemente, non prima di averne posto l’accento sulla loro stretta attualità pur a oltre 30 anni di distanza.

 

In primo luogo si riteneva (usando le parole di allora) che la pervasività nei sistemi industriali e produttivi delle innovazioni tecnologiche e il carattere globale dei processi di ristrutturazione e di terziarizzazione iniziassero a disegnare un nuovo ciclo di sviluppo. Le economie avanzate si muovevano verso uno sviluppo post-industriale, caratterizzato dalla crescente consapevolezza del vincolo della scarsità delle risorse un tempo ritenute illimitate e dell’importanza di ridurre gli sprechi. L’Italia e tutte le economie avanzate si trovavano a doversi confrontare con la fine della lunga rincorsa dell’economia industriale il cui presupposto era il consumo di territorio e di risorse senza andare troppo per il sottile sulla loro possibile scarsità se non, forse, per le sole risorse energetiche che di quel modello di sviluppo erano il motore. Si capiva chiaramente che ci s’iniziava a muovere verso un modello di sviluppo nel quale l’economia della manutenzione riveste un’importanza strategica.

 

Oggi parliamo di economia circolare, di riuso delle risorse, di recupero degli scarti. L’approccio non è molto distante da quello che si stava consolidando intorno alla metà degli ottanta dello scorso secolo.

 

In secondo luogo si andava affermando la convinzione che le basi di metodo, cultura, competenze dell’economia della manutenzione erano saldamente nelle mani dell’industria privata e che era interesse di tutti ma soprattutto del privato trasporle nella gestione e manutenzione dei beni pubblici.

 

In uno scenario nel quale le risorse finanziarie pubbliche per nuove costruzioni venivano rapidamente meno, gli investitori privati avrebbero ricavato dalla manutenzione opportunità di lavoro, di impegno, di costruzione di conoscenze facilmente riapplicabili in altri contesti economici avanzati, favorendo così la transizione verso il nuovo modello di sviluppo. Un Paese nel quale la cultura e l’economia della manutenzione dei beni pubblici sapevano crescere avrebbe creato innumerevoli opportunità al settore privato.

 

Una trasposizione, quella della cultura manutentiva dal settore dell’industria privata a quello della progettazione, realizzazione e gestione di reti, infrastrutture e servizi pubblici, non facile però da portare a termine. Semplificando, si diceva nel 1988 che nella società industriale lo Stato interviene per effettuare investimenti in infrastrutture per attivare le condizioni dello sviluppo dell’investimento privato. In quella post-industriale il ruolo dello Stato è quello di mantenere efficienti le strutture del sistema garantendo condizioni di modernità e di efficienza delle reti, specie di quelle di comunicazione. L’esigenza di interventi efficaci e sincronici diventa l’obiettivo fondamentale da raggiungere.

 

La sincronia pubblico-privato, pur favorita da un comune interesse alla crescita della economica, resta a oltre 30 anni di distanza un obiettivo ancora largamente non raggiunto. Essenzialmente per la strutturale dilatazione dei tempi di reazione rispetto alla cattiva manutenzione del bene pubblico rispetto alla domanda di efficienza. Alla quale si sovrappongono un coacervo di norme, soggetti, responsabilità, decisori. Un sistema oggi più che mai ingarbugliato.

 

In terzo luogo s’iniziava allora a immaginare che l’economia della manutenzione sarebbe stata uno dei fattori di crescita più importante degli anni 2000 anche da un punto di vista sociale. Bastava citare: il degrado dei centri urbani e il loro progressivo spopolamento; la necessità di salvaguardia dell’ambiente; il degrado delle grandi infrastrutture di trasporto; l’abbandono del patrimonio storico artistico e culturale e, soprattutto, la sua scarsa valorizzazione; l’affermarsi di consumi immateriali nei quali la cultura gioca un ruolo fondamentale.

 

Questo valore sociale della manutenzione o, se si preferisce, la perdita di valore sociale dovuta all’accelerazione del degrado dei beni pubblici e al venir meno della cultura della infinita appropriazione delle risorse scarse finiva però per essere assorbito da una logica di breve o brevissimo periodo. Nei consumi, nelle attese rispetto alle politiche pubbliche, nella monetizzazione immediata degli investimenti.

 

Le tre ragioni di fondo prima brevemente richiamate portarono al titolo del Rapporto sulla manutenzione: “Produrre non basta”, serve immaginare il futuro, progettare le cose e le strutture perché durino, siano facilmente riparabili o riutilizzabili, serve integrare le cose con i luoghi rispettando paesaggio e ambiente. Ma soprattutto, come abbiamo provato a ricordare, serve una politica che sappia: governare e promuovere l’innovazione per cogliere le opportunità dell’economia della manutenzione; trovare le giuste sincronie tra bene pubblico e gestione privata; riconoscere il valore sociale dello stop al degrado manutentivo.

Se, come a noi sembra, così è serve allora anche una base di consenso collettivo, di coscienza comune verso un nuovo approccio alla gestione della cosa pubblica e del patrimonio comune. Consapevolezza che parte e non può prescindere da una concreta e efficace condivisione delle responsabilità. Nello stato e nelle sue tante articolazioni istituzionali e funzionali: dai ministeri alle amministrazioni locali, dalle agenzie alle autorità di controllo. Nel sistema produttivo, nei sindacati, nei soggetti della rappresentanza imprenditoriale. Nelle famiglie.

 

Oggi secondo alcune stime meno di una abitazione privata su cento è oggetto, ad esempio, di una polizza assicurativa contro il rischio sismico anche se più di una casa su tre è costruita in zone a rischio di terremoti. Da oltre venti anni si discute se rendere o no obbligatoria questo tipo di copertura con l’unico risultato di rinviare a una domani sempre più lontano ogni decisione.

 

Una copertura assicurativa del patrimonio immobiliare pubblico e privato non è soltanto un modo per affrontare, mai sia, il dramma della distruzione ma anche un potente attivatore di un circuito virtuoso di responsabilità e di valori economici. Le compagnie assicurative sono incentivate a favorire la messa in sicurezza, a verificare la correttezza dei lavori, le certificazioni, la corretta fatturazione degli interventi. Le amministrazioni locali saranno costrette a censire il patrimonio, eseguire le dovute manutenzioni per non incorrere in premi crescenti, dotarsi di sistemi di controllo efficaci. Un obbligo assicurativo produce un livello di conoscenza di molti ordini di grandezza superiore a qualsiasi, velleitario, tentativo di anagrafi o banche dati. Stenderemmo così un velo pietoso e definitivo sui fallimenti delle anagrafi delle strade, delle reti, dell’edilizia scolastica, degli edifici pubblici.

 

Analogamente all’obbligo assicurativo si dovrebbe far crescere una cultura della cosiddetta manutenzione implicita, di uso intelligente delle tecnologie avanzate messe a bordo dei manufatti e degli impianti per conoscere il loro stato di degrado, per prevenire guasti e amplificazione dei difetti e del normale logoramento d’uso. E per promuovere la diffusione di contratti di vendita e manutenzione integrale (come molti di noi già fanno per le normali caldaie per il riscaldamento domestico) con benefici sia di prevenzione sia di crescita della modernità dei sistemi produttivi.

A nostro avviso è su questi elementi di riflessione e di confronto che il dibattito pubblico dovrebbe fermarsi un po’ di più di quanto non sia riuscito a fare fino ad oggi: domandare al sistema politico di farsi carico non solo e non tanto delle molte ricostruzioni e manutenzioni necessarie ma di riaprire uno spazio alla cultura e all’economia della manutenzione. Evitando di cadere nelle tante trappole che oggi come ieri la ricerca di un consenso immediato mette sul suo cammino. Ed evitando di parlare di ricostruzioni. Oggi parafrasando i ragionamenti iniziati negli anni ottanta dovremmo dire: ricostruire non basta.

 

Quattro ci sembrano essere i punti essenziali sui quali ricominciare a riflettere.

 

Il primo è come sfuggire al gioco perverso del dividendo di consenso immediato offerto dai piani di azione, dalle banche dati, dai repertori che a vario titolo in tanti, troppi, si candidano a realizzare. Sembrano soldi sprecati, buoni per foraggiare qualche società di consulenza o di informatica. Scoprire quanto buche ci sono nelle strade di Roma o quanti ponti, gallerie, binari, banchine, piste aeroportuali presentano una qualche forma di degrado o di ritardo manutentivo servirebbe a poco o nulla. Anche perché alla fine dell’inventario occorrerebbe ricominciare da capo.

 

Serve invece analizzare i processi, le tecnologie, i modelli di intervento per ottimizzare le (poche) risorse disponibili e per far crescere quella che ci sembra opportuno continuare a chiamare economia della manutenzione. E che è fatta come tutte le economie non di banche dati ma di soggetti e di processi. Serve, lo capiamo, dare segnali che si è partiti subito e progetti e banche dati sono un buon paravento. Spetta alla politica evitare di nascondersi.

 

Il secondo è sull’impossibilità oggettiva di riportare in mano pubblica la gestione dei patrimoni infrastrutturali oggi delegata al privato. Le amministrazioni e le poche aziende pubbliche rimaste non hanno le competenze, le risorse umane e strumentali, il necessario supporto della finanza internazionale per riappropriarsi delle gestioni già privatizzate.

 

In altra scala si tratta di esperienze già fatte. Basti pensare al fallimentare modello di gestione (prima pubblico poi privato e poi di nuovo pubblico) della gestione delle abitazioni di edilizia residenziale pubblica. O al positivo modello di concessioni aeroportuali (a volte pubbliche a volte private) che pur tra mille difficoltà ha realizzato gli investimenti necessari per garantire un buon livello internazionale dei nostri aeroporti e dei preziosissimi flussi turistici. Il privato che insegue un giusto guadagno ha una motivazione molto più forte a tendere allo sviluppo. Al pubblico spetta un sistema di regolazione e controllo efficiente e la grande responsabilità di garantire una reale competizione. Di nuovo però spetta alla politica disegnare confini e ruoli delle responsabilità.

 

Il terzo è la trasparenza. Nelle reti e nei beni pubblici scarseggia l’elemento fondamentale di controllo che è il mercato. Nel regime delle concessioni emergono vuoti di trasparenza e stili di opacità preoccupanti. La trasparenza su tutti gli atti amministrativi serve anche a far crescere il settore delle imprese di manutenzione. Anche qui però ci aspettiamo che la politica batta un colpo.

 

Il quarto punto, forse il più importante, è che di fronte a tanta complessità, a un progetto di lavoro di anni, a risorse ingenti da mettere in campo serve lavorare uniti. Un ragionamento di parte o di partito sarebbe comunque fallimentare. Essenziale è ritrovare tutti insieme il gusto di parlare dell’economia della manutenzione, di modelli di sviluppo basati su un nuovo paradigma: non più crescita lineare del consumo di risorse scarse, di riorganizzare la collaborazione pubblico privato per gli investimenti in grandi infrastrutture.

 

Spetta, in altre parole, alla politica, ai rappresentati politici, alla discussione politica affrontare in termini nuovi la tragedia del ponte Morandi a Genova. Non solo ricostruendo e riparando ma iniziando ad affrontare, dopo trenta anni, un progetto vero di economia della manutenzione e, soprattutto, dimostrando la necessaria consapevolezza che è finito il tempo per il gioco facile del consenso politico garantito da opere nuove poi lasciate al loro inevitabile degrado.

 

Con l’augurio che il 14 agosto 2018 non sia solo una data la cui memoria scivolerà via ma anche un giorno che ricorderemo non solo in omaggio alle vittime ma anche perché punto di svolta nella cultura collettiva di come si tutelano e si gestiscono le nostre, tante, ricchezze.

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