ll cardinale arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols, s’è detto sicuro che appena possibile le chiese si riempiranno. Non tutti, però, ne sono convinti (foto Reuters)

Il Dio dello smarrimento

Matteo Matzuzzi

Il dibattito sulle messe con il popolo ha oscurato la grande domanda: si tornerà a vivere la fede come prima? La creatività dei sacerdoti e il rischio di sopravvalutare la potenza delle immagini

Messe in chiesa o all’aperto, a numero chiuso e con prenotazione, con sedie al posto dei banchi e con continue sanificazioni. Magari pure con l’ostia distribuita tramite pinzette o erogatori. Si discute, e pure con fervore, sulla ripresa delle celebrazioni liturgiche alla presenza dei fedeli – celebrazioni e non “cerimonie”, come maldestramente i primi decreti governativi avevano messo per iscritto. La Conferenza episcopale italiana, per mesi convinta d’avere un canale di confronto privilegiato con Palazzo Chigi, ha scatenato fuochi e fiamme appena il premier Giuseppe Conte aveva terminato il suo discorso in cui annunciava il calendario delle riaperture che non prevedeva il via libera alle messe con popolo. Ma quale sarà la chiesa del dopo pandemia? L’argomento è finito in secondo piano, ammesso che mai sia stato davvero affrontato. Il Papa qualcosa l’ha detto, quando ha ammonito sul rischio di “viralizzare la fede”, ergendo le messe in streaming a sostituto perfetto della celebrazione eucaristica. “La chiesa, i sacramenti, il Popolo di Dio sono concreti. E’ vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo, ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci. E questa è la familiarità degli apostoli: non gnostica, non viralizzata, non egoistica per ognuno di loro, ma una familiarità concreta, nel popolo”.


L’avvertimento del Papa sull’abuso delle messe in streaming. La protesta dei vescovi, i pareri discordanti tra i sacerdoti. Cosa fare?


 

Il fatto è che “la nostra società tende a far sparire non tanto la domanda di trascendenza, ma l’elemento della comunità. Gli individui continuano a credere ma credono a modo loro. Soggettivizzando e individualizzando. Così non si indeboliscono solo le autorità e le istituzioni religiose, ma i legami sociali”, ha detto domenica scorsa sulla Lettura il sociologo Enzo Pace.

 

Sui social non sono pochi i sacerdoti che rimproverano ai vescovi un impeto fuori luogo, visto che il cristianesimo non può ridursi alla messa e che insomma si può pregare anche stando chiusi in casa. “A me manca l’eucarestia”, ha scritto una signora intervenendo in un dibattito tra preti. “A me i parrocchiani”, ha risposto uno di loro. Il rischio è che si vada incontro alla legittimazione implicita di una fede fai da te, tanto s’è visto che si può guardare la messa seduti sul divano, magari buttando ogni tanto l’occhio sullo smartphone. “Giusto, io prego in casa, non serve andare in chiesa”, ha risposto un’altra convintissima della propria asserzione. Dopotutto, all’inizio di marzo il teologo Vito Mancuso twittava che “in realtà la messa è un’invenzione della chiesa, Gesù privilegiava la preghiera individuale: ‘Tu quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto’. Messe logicamente sospese, i cristiani possono riscoprire il Vangelo”.

 

Ma quanti lo fanno? E’ vero che c’è stata una riscoperta della preghiera individuale, che sembra esserci un’attenzione maggiore rispetto a prima, e prova ne sono gli ascolti televisivi assai delle celebrazioni del Papa, dei rosari, dei momenti di raccoglimento. Ma davvero basta questo? “Non so se i miei parrocchiani si abitueranno a guardare la messa solo su YouTube o in televisione”, dice al Foglio l’abbé Pierre-Hervé Grosjean, 42 anni, che si porta dietro da un po' la definizione non proprio leggera di “prete più conosciuto di Francia”. Assai attivo sui social network, disse che “nei tempi in cui viviamo, nel deserto spirituale che è ora la Francia, rappresentiamo un richiamo molto forte per testimoniare, per riscoprire la grande capacità del cristianesimo di trasformare il mondo”. Il plurale è riferito ai “neocattolici”, che secondo il sociologo Yann du Cleuziou stanno soppiantando i “cattolici d’apertura” capaci di segnare il panorama cattolico francese negli ultimi decenni. “Credo – dice Grosjean – che i fedeli siano impazienti di tornare in chiesa e di ricevere i sacramenti. I miei parrocchiani mi dicono che hanno fame di Gesù, che hanno bisogno di tornare, di confessarsi. Questa mancanza avrà aumentato il loro desiderio di Dio. Abbiamo anche riscoperto l’importanza della comunità parrocchiale. Questa dimensione comunitaria della messa domenicale dobbiamo ora riviverla ‘nella vita reale’. Siamo la religione dell’incarnazione. E ci manca davvero, oggi”.

 

Su questo giornale, qualche settimana fa, il sociologo Massimo Introvigne avvertiva che non è affatto detto che in Italia assisteremo a un risveglio religioso, con “folle” decise a tornare in chiesa appena le messe con i fedeli saranno permesse. La storia e i precedenti insegnano tutt’altro: laddove per periodi più o meno lunghi le celebrazioni sono state sospese, il rientro è stato diverso: meno gente, ché la maggioranza s’era ormai disabituata al rito. In alcune regioni della Francia, qualcuno osserva, si sta pagando ancora pegno all’anticlericalismo giacobino di fine Settecento. Certo, stavolta di virus si tratta e non di ghigliottina, ma il futuro non è poi così scontato. Il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, invece, s’è detto certo che vi sarà “fame di eucaristia”.


I riti in solitaria, la benedizione del Papa di fine marzo. Il problema di distinguere tra la commozione e la consapevolezza della propria fede


 

“La fede dopo la pandemia? Il dopo è molto lontano, e bisogna piuttosto chiedersi, credenti e non credenti, come la fede sarà vissuta in un tempo di crisi (dunque, etimologicamente, di giudizio) che ancora non è cominciato”, dice al Foglio il professor Giovanni Maria Vian, storico e già direttore dell’Osservatore Romano. “E dopo l’epidemia si entrerà nell’ignoto e nell’imprevedibile, come in una traversata nel deserto: luogo ostile e sconosciuto, ma anche scenario per la ricerca dell’assoluto, dai contemplativi ebrei descritti da Filone e dal monachesimo egiziano fino a Charles de Foucauld, il ‘fratello universale’ da cui discendono i Piccoli fratelli e le Piccole sorelle di Gesù”.

 

In realtà, sostiene Vian, “mancano criteri per prevedere se i luoghi di culto si affolleranno. In Italia vi sarà un’attenzione esasperata, dei media e della politica, soprattutto dopo le incertezze governative dell’ultima ora: non intendo prendere partito per una soluzione o per l’altra, entrambe legittime, ma queste incertezze sono dannose. Dobbiamo dunque aspettarci il solito scontro politico; certo non una guerra di religione, bensì scaramucce accanite e sterili, che costano poco ma rendono molto in termini di consenso, fra opposte tifoserie”. E sul ritorno in chiesa, ha ragione Nichols, il primate cattolico d’Inghilterra, o Introvigne? “Inclinerei per il secondo, sostenuto da studi sul comportamento religioso, anche se il primo è abituato a un livello liturgico e a una partecipazione in Italia impensabili: quale cattedrale del nostro paese ospita la creatività musicale, mirabilmente moderna, e la partecipazione intensa che sono invece abituali nella cattedrale londinese, popolata da minoranze creative arricchite da cattolici immigrati da luoghi magari lontanissimi? E’ dunque ragionevole che il cardinale si aspetti il rientro di moltissimi fedeli”. Ma da noi che cosa accadrà? “Penso che non cambierà molto”, dice il professor Vian: “I credenti convinti o in ricerca lo saranno ancora di più, mentre per gli altri la disaffezione aumenterà. E non mi riferisco solo ai cattolici. Condivisibile è infatti la pacata critica, sul sito dell’ebraismo italiano, per l’assenza di riferimenti alle altre fedi. E nessuno sa che siamo in pieno ramadan, come invece hanno sottolineato i giornali spagnoli. Interrogarsi se le chiese si svuoteranno può allora avviare un processo che devono intraprendere innanzitutto le gerarchie ecclesiastiche e il clero, di cui ha colpito negativamente il silenzio e l’incapacità di parole vere, a parte rarissime eccezioni. Sarà meglio una chiesa di pochi? Aveva ragione Jean Daniélou, geniale storico del cristianesimo, a criticare questa concezione. E a contrapporle, ‘non in nome della difesa di una cristianità storica ma in nome delle esigenze stesse dell’Evangelo e di una visione realistica dell’avvenire’, una visione diversa: quella secondo la quale ‘una caratteristica essenziale dell’Evangelo è di essere la religione dei poveri, non nel senso di quelli che sono staccati da ciò che è terreno, ma nel senso dell’immensa marea umana’. Moltitudini di ‘poveri’ che non vanno abbandonati, ma senza illudersi sui numeri finali”.


“Si entrerà nell’ignoto, come in una traversata nel deserto: luogo ostile e sconosciuto, ma anche scenario per la ricerca dell’assoluto” (Vian)


 

Forse, sulle stime ottimistiche circa il ritorno in chiesa, ha pesato il grande seguito che hanno avuto i gesti del Papa, compiuti per lo più in solitudine nella lunga quaresima che ha condotto alla Pasqua celebrata in una basilica vaticana vuota. Su tutti, la preghiera del 27 marzo, con la benedizione eucaristica alla città di Roma e al mondo, tra la lettura del Vangelo in cui Gesù chiede ai discepoli perché avessero paura, la pioggia che cadeva sul Crocifisso miracoloso di San Marcello e l’adorazione. Si è detto che, improvvisamente, l’uomo – anche il non credente – ha riscoperto la Morte, la grande dimenticata di questo tempo. E finalmente si è interrogato sul dopo, chi con angoscia e chi con speranza. “La pandemia ci riconsegna la morte perché ci mette drammaticamente davanti alla solitudine del morire. Questo contrasta con la grande rimozione della morte imposta dal modello vitalistico delle società secolarizzate. La morte che pareva scivolare nell’interiorità degli individui diventa con il virus un interrogativo collettivo”, ha detto sempre al supplemento culturale del Corriere della Sera Enzo Pace, aggiungendo che “la vera secolarizzazione non sta nel fatto che la gente vada poco a messa, ma che l’attesa della fine dei tempi sia sparita come orizzonte temporale”.

 

Nota l’abbé Grosjean che “in tempi di prova l’uomo comprende la sua fragilità. Si confronta con i suoi limiti, con la morte. Ha paura di un futuro su cui non ha alcun controllo. Ha bisogno di speranza. Molti, ora, riscoprono l’importanza della preghiera, del sapere che Dio ci sta osservando, che ha conquistato il male e la morte. Non si tratta di ‘fuggire’ dalle prove o dalla realtà, ma piuttosto guardare questa realtà con uno sguardo di fede per capire che al di là delle apparenze, il male non avrà mai l’ultima parola. Questo è ciò che abbiamo celebrato a Pasqua, e questo è ciò che ci mantiene in pace”.

 

“Ragionare sulle emozioni indotte dalle immagini equivale a una riflessione sui segni esteriori e sul loro rapporto con l’interiorità”, osserva il professor Vian. “Un rapporto messo in pericolo da una trascuratezza liturgica sempre più diffusa. Certo, è difficile un punto di equilibrio tra celebrazioni che emozionano, quelle che si potrebbero definire rutinarie, e il culto ‘in spirito e verità’ di cui Gesù parla alla samaritana, o che Paolo descrive all’inizio del dodicesimo capitolo della Lettera ai romani con un’espressione ricca di sfumature che viene in genere tradotta ‘culto spirituale’. Chi ha partecipato ad alcune liturgie a Gerusalemme, a Monteveglio, in qualche chiesa parigina o in quelle monastiche di Francia, oppure a Taizé, a Bose, in chiese di rito orientale, non importa di quale confessione, ne conserverà un ricordo indelebile. Ma celebrazioni semplici, a volte commoventi, partecipate con autenticità, si tengono nella parrocchia del Crocefisso a Todi oppure, ormai da decenni, quando a Roma si va a messa al Gesù o a Sant’Onofrio. Sono esperienze personali, ma ogni fedele può facilmente stilare un suo elenco. Anche in questo ambito bisogna fare un esame di coscienza. Alla cura liturgica – aggiunge –, che non equivale alla mania vacua per forme rituali o paramenti, va aggiunta la preparazione, come da decenni ripete l’autorità ecclesiastica, che moltiplica invano disposizioni sulle omelie, che ricordano le proverbiali inutili grida per la repressione dei bravi sgranate da Manzoni all’inizio dei Promessi sposi”. Le omelie. “Sì, dice Vian, “le omelie vanno preparate, sulle letture bibliche, che occorre studiare. E queste prediche non devono durare più di sette, otto minuti. Anni fa un monaco nella chiesa romana di Santa Susanna non oltrepassava mai i tre, quattro minuti, ma spiegava le Scritture, che non sono mai facili, e faceva riflettere. Oggi da Taizé e da Bose sono diffusi essenziali commenti al vangelo del giorno scritti da monache e da monaci. I preti non bastano? Per predicare ci sono i laici, e tra i laici le donne sono maggioranza: basterebbe poco per una riforma che molto gioverebbe al ‘popolo di Dio’. Ecco allora che la pandemia può portare a un tempo di preparazione e di studio”.


“In tempi di prova l’uomo comprende la sua fragilità. Ha paura di un futuro su cui non ha alcun controllo”, dice l’abbé Grosjean 


Insomma, prosegue l’ex direttore dell’Osservatore Romano, “i segni dunque sono importanti, come le immagini, per suscitare emozioni profonde, non superficiali, quelle che maturano riflettendo in silenzio sui testi, come raccomandano i direttori spirituali. Ma le immagini efficaci in queste settimane sono state davvero poche, e la più impressionante resterà quella della benedizione papale ‘alla città e al mondo’ davanti a una piazza San Pietro vuota sotto la pioggia. Grazie soprattutto all’immagine, suggerita da Alessandro VII a Bernini, di un colonnato che riceve ‘à braccia aperte maternamente i Cattolici per confermarli nella credenza, gl’Heretici per riunirli alla Chiesa, e gl’Infedeli per illuminare alla vera fede’. E un suggestivo segno è stato in molti luoghi il suono delle campane, che richiamano al raccoglimento e alla preghiera, scandendo il tempo per spingersi oltre”.

 

Secondo l’abbé Grosjean, “di fronte a qualsiasi prova, il credente ricorda due cose: in primo luogo, che questo male non è voluto da Dio. E’ importante dirlo di nuovo. Dio non è felice di vedere gli uomini soffrire o morire. Quindi, ‘Lo sappiamo, quando gli uomini amano Dio stesso, tutto contribuisce al loro bene…’ (Rm8,28). Ciò significa che questa prova deve essere anche per ognuno di noi, per i nostri paesi, per le nostre famiglie, l’opportunità di crescere, di progredire nella carità, nell’unità, nella fede. Possiamo vederlo: in questa crisi, a volte si rivela il peggio, ma anche il meglio dell’uomo. Una creatività nella carità, nella solidarietà, nella preghiera per sostenere quanti si prendono cura dei sofferenti, dei malati, delle persone in solitudine che è molto bella. Questa è sempre la domanda che un credente può porsi: attraverso un tale evento, felice o infelice, come vuole il Signore farmi crescere?”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.