La Pasqua nel silenzio
Nel buio di questo tempo ogni uomo si riconosce abitato dal desiderio di non essere in balìa del dolore, della morte e del nulla. La sfida alla cultura moderna e il senso ultimo dell’esistenza
L’immagine che forse meglio racconta il valore di questa Pasqua così straniante è quella che ritrae la basilica di San Pietro vuota, mentre il Papa, puntino in fondo alla navata principale, oltre la Confessione e vicino alla cattedra, celebra i riti propri del tempo. Tra l’icona della Salus populi romani e il Crocifisso miracoloso di San Marcello. Nel silenzio interrotto solo dai canti, dalle letture e dalle preghiere. Un vuoto riempito dalla supplica dell’uomo davanti al Mistero. E’ stato scritto che queste settimane sono state come un lungo, infinito Sabato santo. Si è riscoperto l’essenziale, si è compreso che molto di quanto si riteneva eccezionale spesso altro non era che una banale routine, si è dato il giusto valore al dolore – “Dio forse gradisce la bestemmia dell’uomo disperato e la capisce, più delle lodi del benpensante della domenica mattina durante il culto”, scrisse il cardinale Gianfranco Ravasi.
Il vuoto riempito dalla supplica davanti al Mistero, le tenebre e la vittoria finale. Conversazione con il padre abate Mauro Lepori
Una quaresima vissuta intensamente come mai era accaduto prima, in modo quasi carnale. Ne abbiamo parlato con padre Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’Ordine cistercense e autore di numerose pubblicazioni, nonché curatore della collana “A caccia di Dio” dell’editore Cantagalli, per il quale ha scritto anche Si vive solo per morire?. “Il Sabato Santo è il giorno della fede della Vergine Maria, che ha continuato ad ardere come una fiammella nel buio più assoluto creato dalla morte di Cristo. Tutta la fede della Chiesa, di tutti i discepoli, ha continuato ad ardere nel cuore pieno di dolore e di amore della Madre di Dio. Fede che vuol dire fiducia e speranza nell’amore di Dio contro ogni evidenza contraria. La fede che Cristo era morto per noi, per salvare tutta l’umanità, teneva accesa nel cuore della Vergine un’attesa. Proprio perché Maria non ha smesso di vedere nel Figlio crocifisso tutto l’amore di Dio, non poteva non attendere il bene, la vita, la salvezza. Li attendeva dalla Croce, dalla morte stessa del Figlio. Non sperava qualcosa dal futuro perché sapeva che in quella morte in croce tutto il bene, tutto il positivo, tutta la vita che l’umanità può desiderare e sperare erano già avvenuti, erano già stati espressi e donati. L’amore aveva già vinto la morte. Nell’istante in cui Cristo è morto, non è la morte che ha vinto l’amore di Dio, ma l’amore di Dio che ha vinto la morte. La Risurrezione ha manifestato questa vittoria definitiva, in tutti i sensi del termine: una vittoria per sempre, ma anche una vittoria che deve definire tutto, tutto quello che siamo, viviamo, tutto quello che avviene nel mondo, nell’universo, nella storia”.
Tutto questo, dice padre Lepori, “vale oggi, vale nella prova che viviamo ora. Quando il Papa ha venerato il Crocifisso di San Marcello, o quando, la Domenica delle Palme, ha detto: ‘Stiamo davanti al Crocifisso – guardate, guardate il Crocifisso! –, misura dell’amore di Dio per noi’, ci ha provocati ad aprire gli occhi della fede nell’amore di Dio più reale di tutto, che non cambia solo l’interpretazione o il senso della realtà che viviamo, ma la realtà stessa, e ci mostra che la realtà che viviamo è altra da quel che appare. E infatti, la realtà trasformata dall’amore di Dio ci dà segni evidenti: persone che muoiono coscienti di entrare nella vita, situazioni dolorose che si riempiono di carità, di bontà, di riconciliazione, di pace. Il Sabato Santo, le tenebre coprivano la terra, ma Gesù già scendeva agli inferi a liberare dalla morte Adamo ed Eva, e tutta la discendenza umana. In Cristo, tutto è compiuto, la redenzione del mondo è compiuta. Siamo noi che non abbiamo ancora aperto gli occhi della fede per vederla, per vederla sempre, per vederla compiuta là dove non è ancora manifestata”.
“La sfida è accettare di prendere coscienza di un capovolgimento di valori che ci rivela ciò per cui vale veramente la pena di vivere”
E’ un tempo di sfide che l’uomo è chiamato ad affrontare, anche perché le circostanze gli si parano davanti, ineludibili. La sfida principale, oggi, è “forse il valore della ‘mancanza’ o, se si preferisce, della ‘povertà’. Tutti abbiamo fatto esperienza di dover mancare di beni e realtà finora considerati irrinunciabili. E abbiamo visto quant’era fragile un sistema sociale e economico costruito sulla vanità, cioè su bisogni creati più dall’avidità di pochi che dal profondo desiderio di pienezza del nostro cuore. Quando non percepiamo il vero bisogno del nostro cuore, diventiamo insensibili anche al bisogno vitale dei poveri. Che non è solo materiale, ma bisogno di attenzione, di tempo consumato assieme, di preghiera condivisa. E’ inumano godere del superfluo che per tanti altri sarebbe necessario per vivere. Questa epidemia ha fermato il nostro mondo. Purtroppo ferma e fermerà anche gli altri mondi, che già faticavano ad avanzare. Questo ‘arresto’ ha però senso anzitutto per noi e ci chiede riflessione. La vera sfida è accettare di prendere coscienza di un capovolgimento di valori che ci rivela ciò per cui vale veramente la pena di vivere, di lavorare, di studiare, di coltivare rapporti, di avere famiglia o di non averla. Io per primo, mi sento sfidato da questo tempo a lasciarmi ferire da una coscienza nuova della vita, e di tutto quello che la vita mi dà di conoscere, di desiderare, di possedere ed usare. E’ una sfida a una conversione evangelica (cfr. Mc 1,15). Mi fa molto riflettere un testo di san Paolo: ‘Il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!’ (1Cor 7,29-31). Non lo dice perché ci disinteressiamo della vita, di noi stessi e degli altri, uscendo dalla storia, ma perché, lasciandoci educare dalla fragilità strutturale della realtà, viviamo attingendo consistenza dal rapporto con Colui che fa tutte le cose”.
Di immagini si parlava all’inizio; immagini che abbiamo visto molte volte in questo mese di clausura. Una ha toccato la coscienza di ciascuno proprio per il suo enorme carico emotivo: la teoria di camion militari che, nottetempo, sfilavano per città e paesi trasportando decine di bare destinate ai forni crematori del nord e del centro Italia. Ecco, il tema della Morte, grande dimenticata dalla nostra società, che torna con prepotenza. Insomma, un enorme e improvviso monito la cui eco risuona chiara, Viator, quod tu es, ego fui. Quod nunc sum, tu eris, forte come un pugno nello stomaco a chi, tali pugni, non era più abituato a riceverli. Per decenni abbiamo cercato di esorcizzare la morte, di nasconderla. “Prima dell’epidemia, la morte messa in scena era quasi sempre la morte degli altri: di altri popoli, in altri contenenti. Anche la morte dei migranti nel Mediterraneo, pur toccando le rive del nostro mondo, era sempre la morte degli altri. Semmai temevamo che loro portassero in casa nostra la loro morte. La morte portata dal Covid-19 è la nostra morte, anche se ha un raggio universale. E il fatto che tocchi noi, le persone che conosciamo, che ci sono care, ci aiuta a sentire nostra anche la morte di tutti gli altri. Ritornare a guardare in faccia la morte dicendola ‘nostra’ è forse il grande salto di coscienza e di umanità che questa prova ci sta donando. Il realismo più vero consiste nel riconoscere che la morte ci appartiene, che fa parte della definizione della nostra vita, dei nostri rapporti, del nostro amore. Se censuriamo la morte, censuriamo noi stessi, la nostra umanità. Una lunga tradizione ci aveva pur educati a questo rapporto vero con la morte e con noi stessi: non si invoca forse da secoli la Madonna chiedendole di pregare per noi ‘adesso e nell’ora della nostra morte’? San Francesco, donandoci una delle prime poesie in italiano, non ci ha forse insegnato a definire la morte come ‘nostra sorella’: ‘Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale’?
“Forse, la verità umana fondamentale che molti hanno riscoperto in questi tempi è la capacità di pregare”
La tradizione cristiana non ci insegna ad avere un rapporto morboso con la morte – anche Gesù ha provato angoscia di fronte a essa –, ma ci insegna un rapporto familiare con la prospettiva della morte per non ridurre il significato della nostra vita. Non pensare alla morte è un modo riduttivo e meschino di trattare la vita. Chi non si familiarizza con la morte, per esempio, invecchia male, come camminando all’indietro, guardando il passato, scimmiottando la giovinezza, e arriva sull’orlo del baratro senza accorgersene, cadendoci per sorpresa come in un trabocchetto, o come uno a cui si spara alle spalle. La Regola di san Benedetto chiede ai monaci ‘di avere ogni giorno la morte presente davanti agli occhi’ (4,47). La cultura moderna pensa che questo disturbi la vita, rendendola triste. Invece, e lo vediamo in tantissime persone, anche giovani, questo orizzonte rende intensa la vita. Avere coscienza della morte porta a vivere l’istante con intensità, gusto e responsabilità. Una vita può essere breve, ma vissuta così, è una vita grande.
E poi, c’è la morte di Cristo, che in questi giorni commemoriamo. La morte di Cristo è la nostra morte, la morte più nostra che ci sia. Perché Dio non poteva morire se non della nostra morte, e per questo si è fatto uomo. Ma la morte di Gesù è nostra soprattutto perché Lui ce l’ha donata. Cristo non ci ha donato solo la vita, ma anche la morte, la morte come dono della vita, la morte che vince la morte e semina la risurrezione, la vita eterna. Il problema della morte non è illuderci di evitarla, ma che la viviamo come pienezza del dono della nostra vita. Il dolore, straziante, di chi in queste settimane ha dovuto morire separato dai propri cari, è un dolore pieno di amore. Come le piaghe di Cristo. Il dolore manifesta l’amore, un amore più potente di ogni separazione, perché è contatto diretto dei cuori più forte della morte e che rimane in eterno. Anche a questo ci sta rieducando la prova che viviamo: ciò che ci lega veramente agli altri non si riduce ai mezzi di espressione che abbiamo, coi gesti e le parole, ma una realtà interiore molto più profonda. Chiamiamola cuore, ma soprattutto chiamiamola amore, carità, una realtà così consistente da essere la Realtà di Dio, la realtà dell’Essere da cui e per cui tutto esiste”.
“Ritornare a guardare in faccia la morte dicendola ‘nostra’ è il grande salto di coscienza e di umanità che questa prova ci sta donando”
Forse, osserva padre Lepori, “la verità umana fondamentale che molti hanno riscoperto in questi tempi è la capacità di pregare. Anche un ateo prega se ascolta ed esprime la sete di vita e salvezza che gli sgorga dal cuore. E’ impressionante guardarsi negli occhi, anche solo un istante, dalla distanza che ci è imposta, e riconoscerci tutti abitati da un desiderio comune, da una mendicanza comune, che non è solo della fine di questa epidemia, ma desiderio di non essere in balia della morte, del nulla, il desidero di una vita eterna che le nostre mani non modellano, ma che, vuote, possono accogliere”.