“La pandemia, con i suoi morti, ci riavvicina alla cultura della vita”. Parla la biologa Marisa Levi

Giulio Meotti

“I medici sono tornati alla loro funzione originaria: curare e salvare. E tutta questa inquietudine ci porterà, forse, a un riavvicinamento ai valori giudaico cristiani”

Roma. “Coronavirus: attenzione al rischio eutanasia!”, scrive sul giornale francese Vie Bernard Devalois, medico al centro Bagatelle di Bordeaux e già presidente della Società francese di cure palliative (Sfap). Intanto, la Bbc spiega che nel Sussex un documento medico ufficiale invita le case di cura travolte dalla pandemia a non mandare i loro pazienti in ospedale. Di questo rischio “razionalizzazione” si parla da settimane, ma la biologa Marisa Levi è ottimista e vede semmai una situazione di speranza. Non di cultura della morta, ma della vita.

 

Secondo Levi, docente all’Università di Milano dal 1976 al 1994 e poi all’Università di Verona nel dipartimento Biotecnologie, nonché membro della Commissione scienza e fede della diocesi di Verona, “la tragedia in corso ci avvicina alla cultura della vita”.

 

Non è paradossale? “Ci si rende conto che la vita non è una cosa astratta, ideologica, ma concreta, che ‘si manifesta sempre in una persona in carne e ossa’, come ha detto Papa Francesco per il 25esimo della Evangelium Vitae, sottolineando come tante persone si spendono al servizio dei malati, degli anziani, di chi è solo e più indigente”, dice Marisa Levi al Foglio. “In biologia, che è la scienza della vita, non studiamo ‘la vita’, ma gli esseri viventi. Riprende slancio la cultura della vita, perché si torna a riconoscere alle professioni sanitarie la loro destinazione originaria: quella di usare scienza e coscienza per curare e salvare vite, mentre alcuni vorrebbero che i medici amministrassero anche la morte. Leggevo l’altro giorno un tweet di Antonio Polito: ‘Ora vorremmo tutti, giustamente, tutto l’accanimento terapeutico possibile per salvare i nostri vecchi. Ricordiamocene dopo’. La morte non è più una cosa desiderabile, una scelta, ma qualcosa da combattere con tutte le forze possibili. Vediamo come tantissimi si stanno dando da fare per preservare non solo la salute fisica, ma anche quella più spirituale, non necessariamente religiosa, per esempio condividendo o mettendo a disposizione musica, arte, cultura”.

 

Non è che in occidente, per dirla con Robert Redeker, abbiamo scacciato la morte al punto da renderci impreparati a questo dramma? “Nessuno di noi può essere preparato al succedersi di morti così numerose e ravvicinate, tanto più dolorose per la solitudine di quelli che muoiono e la sofferenza dei loro cari, che non possono stare loro vicino negli ultimi momenti della loro vita e neppure avere la consolazione di vegliarli e onorarli con un funerale”, continua Levi. “E’ però vero che noi occidentali siamo stati sinora privilegiati da tanti anni privi di epidemie e di guerre. In altri paesi sono molto più abituati, e noi raramente ci pensiamo”.

 

Si vedono segni di riavvicinamento alla religione. “Spero di sì. Ho notato reazioni molto commosse alla preghiera straordinaria del Papa in piazza San Pietro da parte di tante persone che si definivano (probabilmente a torto) atei o non credenti. Speriamo che l’inquietudine per la pandemia e per le sue conseguenze economiche possa essere per molti l’inizio di un reale avvicinamento o ritorno ai valori giudaico cristiani. Questo dramma, mettendo in crisi tante false sicurezze, forse porta a farsi tante domande e crea un terreno opportuno per ridimensionare la secolarizzazione. Le ideologie di fronte ai drammi reali non reggono, mentre la fede cristiana aiuta a dare senso e risposte agli avvenimenti più drammatici”.

 

Alain Finkielkraut, in un saggio che abbiamo pubblicato ieri sul Foglio, dice che il nichilismo non ha vinto. Siamo sicuri? “Finkielkraut ha ragione. Come sempre le situazioni drammatiche mettono in evidenza il meglio e il peggio delle persone, ma i valori stanno nettamente vincendo sui disvalori, continuiamo a vedere persone che compiono anche eroicamente il loro lavoro per il bene comune, incuranti della fatica e del pericolo, vediamo una grande creatività nell’inventare piccoli e grandi gesti di solidarietà da parte di singole persone o di aziende”. Che non sia in corso anche una rivalutazione della famiglia, istituzione economicamente e culturalmente massacrata in questi anni? “Vengo da una famiglia numerosa e ai nostri tempi non c’erano molti passatempi esterni, e ricordo con molta gioia i pomeriggi in cui si giocava tutti insieme a casa, o quando si cucinava insieme: erano le occasioni per parlarsi, conoscersi meglio, prendersi in giro... e qualche volta naturalmente litigare un po’. Penso che anche il dolore della separazione fisica nel momento della morte dei propri cari sottolinei l’importanza degli affetti famigliari”.

 

Il padre di Marisa, Eugenio Levi, si è rifugiato in Svizzera nel dicembre 1943, pochi giorni dopo avere ricevuto il battesimo, lasciando indietro la moglie che non era ebrea. “Prima di separarsi si sono promessi di leggere un canto della ‘Divina Commedia’ ogni sera, sperando di non arrivare alla fine, invece hanno dovuto ricominciare diverse volte”. Il padre sarebbe diventato preside della facoltà di Economia a Parma. Anche le tavole dei logaritmi Brasca-Levi che si usavano una volta sono sue. Cosa c’era nella cultura che ci ha reso impreparati? “A me pare che gran parte della cultura europea sia impregnata di astrattezza, razionalismo e idealismo, e sia molto ideologizzata. Un aspetto entrato in crisi con la pandemia? L’ideologizzazione dell’accoglienza: l’accoglienza è un valore importante, ma tutti ricordiamo che quando qualcuno chiedeva la quarantena per chi rientrava dalla Cina, altri hanno risposto con un ‘abbracciamoci tutti’. Forse quella quarantena non sarebbe servita lo stesso a bloccare il contagio, perché probabilmente il virus era già fra noi, ma poi si è dovuti passare dall’‘abbracciamoci tutti’ al ‘non abbracciamoci proprio’. Questo succede quando si assolutizzano dei valori senza tener conto del resto: si perde il senso della realtà, che è complessa”. In Olanda, a causa della pandemia, ha sospeso le attività la famosa clinica per l’eutanasia Levenseindekliniek. “Perché adesso la priorità per i loro collaboratori medici e paramedici è salvare vite”, conclude Marisa Levi. C’era già abbastanza morte in giro per darle anche una mano.

Di più su questi argomenti:
  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.