“Crocifissione” di Renato Guttuso, opera del 1941, conservata alla Galleria nazionale di Roma (Google art)

Il nuovo capro espiatorio

Giulio Meotti

“Il conformismo sarà irresistibile”. Un inedito René Girard contro i nuovi padroni del pensiero. “Nell’occidente postcristiano, il cattivo per eccellenza, cercheranno di farci regredire alla barbarie”

Era arcaico per i postmoderni, letterario per i filosofi, mai alla moda per l’intellighenzia che va, cristiano e interessato al “fatto religioso” per i più. Così, agli occhi dei nostri padroni del pensiero, René Girard rimase a lungo ai margini, perché il centro era stato tutto schiacciato e occupato dalla “teoria critica”. Girard ricambia loro il favore in queste nuove “Conversations” che, a cinque anni dalla morte del grande filosofo delle Scienze sociali, l’editore inglese Bloomsbury manda in libreria in primavera. Un simposio a Stanford nel 1981, un altro a Notre Dame nel 1993, un altro alla Faculdade da Cidade di Rio de Janeiro nel 2000, una conferenza a San Francisco nel 1992, una conversazione con Philippe Godefroid nel 1985, un incontro con gli studenti della Ucla nel 1987… Tutto raccolto sotto il titolo “Il profeta dell’invidia” e curato da Cynthia Haven, già biografa di Girard (“Evolution of desire”, uscito un anno e mezzo fa). Aveva iniziato occupandosi del romanzo nel XIX secolo per finire con una grande fama di antropologo di vasta portata alla Johns Hopkins (1957-1968, 1976-1980) e poi a Stanford (1981-2015). Il suo pensiero avrebbe avuto una vasta eco in tutto il mondo occidentale su studi letterari, antropologici, sociologici, religiosi nonché su tanti romanzieri (Milan Kundera, JM Coetzee). Nel 1957, Girard inizia come professore alla Johns Hopkins di Baltimora, dove rimase undici anni. Un’università molto prestigiosa, frequentata da grandi professori, alcuni dei quali diventeranno suoi amici, come Cesareo Bandera e John Freccero, specialista di Dante. Si fece una reputazione alle lezioni: Girard è un professore straordinario, carismatico, come diranno molti suoi studenti, che sarebbero diventati professori e ricercatori. Nel 1966, con Eugenio Donato e Richard Macksey, Girard fu l’organizzatore di una conferenza internazionale dedicata ai “linguaggi della critica e delle scienze umane”. I partecipanti sono delle stelle nel loro campo e la conferenza avrebbe lanciato il pensiero francese – in seguito chiamato “teoria francese” – negli Stati Uniti. Il poststrutturalismo e la decostruzione erano all’origine di un grande sconvolgimento ideologico ed educativo, che Girard con il suo famoso umorismo definirà l’importazione europea della “peste” nelle università americane. Haven definisce questo evento “l’equivalente del Big Bang nel pensiero americano”.

 

A cinque anni dalla morte del grande filosofo delle Scienze sociali, Bloomsbury manda in libreria “Conversations with René Girard”

Girard chiamò a parlare il filosofo Jacques Derrida, lo psicoanalista Jacques Lacan, il semiologo Roland Barthes e l’epistemiologo Michel Foucault. E’ uno tsunami francese che continua oggi a modellare curricula, docenti e dipartimenti delle discipline umanistiche americane. A quel tempo, spiega Haven, “lo strutturalismo era il culmine dell’eleganza intellettuale in Francia, e ampiamente considerato il successore dell’esistenzialismo. Lo strutturalismo era nato a New York quasi tre decenni prima, quando l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, uno dei tanti studiosi europei in fuga dalla persecuzione nazista negli Stati Uniti, aveva incontrato un altro studioso rifugiato, il linguista Roman Jakobson, alla New School for Social Research. L’interazione tra le due discipline, antropologia e linguistica, ha innescato un nuovo movimento intellettuale. La linguistica divenne di moda e molti dei documenti del simposio erano ammantati nel suo vocabolario”.

 

Il niccianesimo di sinistra e relativista dell’alto mondo intellettuale francese, sposato a un’analisi neo-marxista e moralista delle tradizioni culturali e delle strutture di potere americane, prese d’assalto la cultura. “In un certo senso, nelle discipline umanistiche e nelle scienze sociali, l’influenza francese non è mai stata così grande come lo è oggi, con i critici francesi come Foucault e Derrida e cose del genere”, spiega Girard nel libro in uscita per Bloomsbury. “Ma sono tutti nichilisti post-nicciani. In un certo senso, trasmettono il nichilismo nicciano al corpo politico americano”. E ancora: “La decostruzione è anti-occidentale e ‘politicamente corretta’. Non c’è motivo di individuare l’occidente come il cattivo culturale per eccellenza. Per i politicamente corretti, naturalmente, questa è un’eresia, e per questo motivo, come pochi altri, non sono in odeur de sainteté nel nostro establishment accademico”.

 

Se per Marx tutto aveva radice nell’economico e per Freud nella sessualità, per Girard tutto aveva radice nella violenza. Ricondusse ogni esperienza umana a quell’unico principio. Un’imponente erudizione etnologica, antropologica, psicoanalitica, letteraria, fu posta da Girard a servizio della sua unica grande tesi: tutte le culture, tutte le religioni, si edificano attorno al linciaggio fondatore, il convergere cioè di una dilagante violenza di massa su un capro espiatorio. Ma se in passato, per salvarsi dall’ira divina, sceglievamo un capro espiatorio su cui scaricare le tensioni, oggi siamo tutti (e nessuno) capri espiatori.

 

Se per Marx tutto aveva radice nell’economico e per Freud nella sessualità, per Girard tutto aveva radice nella violenza

Nel libro, Girard sostiene che è sano l’impulso che ci porta a dubitare del “nostro etnocentrismo”, ma che ci stiamo spingendo troppo oltre, “quello che stiamo facendo è essenzialmente un capro espiatorio della nostra cultura nel processo, e questo è problematico. L’occidente si dichiara la peggiore di tutte le società”. Questo fenomeno può avvenire solo in una civiltà che ha già subito l’influenza del cristianesimo. “Il meccanismo del capro espiatorio continua a funzionare, anche se in modo diverso: il movimento politicamente corretto accusa i suoi avversari di creare capri espiatori, li accusa di vittimizzare gli altri. È come se il cristianesimo si capovolgesse: prendono ciò che resta dell’influenza cristiana, ciò che resta di un linguaggio cristiano, ma a fini opposti, per perpetuare il meccanismo del capro espiatorio”.

 

Girard parla anche di islam e di choc di civiltà: “Allah è contro il consumismo e così via. Ciò che il musulmano vede è che i rituali di proibizionismo religioso sono una forza che tiene unita la comunità, che è totalmente scomparsa o è in via d’uscita in occidente. La gente in occidente è unita solo dal consumismo, dai buoni salari, ecc. I musulmani dicono: ‘Le loro armi sono terribilmente pericolose, ma come popolo sono così deboli che la loro civiltà può essere facilmente distrutta’. Questo è il loro modo di pensare, e forse non si sbagliano del tutto. Penso che ci sia qualcosa di giusto”.

 

Negli anni Ottanta, Girard fu antesignano nell’individuare le autentiche fonti di quella che sarebbe poi chiamata post-truth: “Oggi viviamo in un mondo, soprattutto nelle scienze umane, dove la nozione stessa di verità è diventata nemica. L’idea è che si deve avere pluralità. Così, oggi, l’interesse della pluralità ha la precedenza sulla ricerca della verità. Bisogna dire in anticipo che non si crede nella verità. Nella maggior parte dei circoli in cui mi muovo, la decenza è equiparata allo scetticismo che rasenta il nichilismo. Nella vita intellettuale di oggi, c’è una sorta di paralisi, perché la gente ha così tanta paura di non essere abbastanza gentile con l’altro - sai, offendendo l’opinione del prossimo, che ha rinunciato molto spesso alla ricerca della verità. Oppure la considerano un male in sé, cosa che credo sia sbagliata. Capisci cosa intendo? Sta andando troppo oltre. Hanno così paura del dogmatismo che preferiscono rifiutare tutte le possibili credenze. L’imperativo numero numero uno è evitare il conflitto. Possiamo avere successo solo attraverso la sterilità”.

 

“Per i politicamente corretti, l’occidente è il cattivo per eccellenza. Per questo non sono in odeur de sainteté nell’establishment”

L’avanguardia francese sbarcata nei campus americani, col suo “puritanesimo etico”, Girard la definisce “autodistruttiva”. E’ la “morte dell’umanesimo”. In queste “Conversations”, Girard non si ritrae neanche di fronte ai grandi scandali morali della coscienza contemporanea, come l’aborto: “Negli Stati Uniti l’aborto è ancora oggetto di discussione, ma in Europa, per esempio, non si discute affatto. Recentemente ho scritto un articolo per una rivista cattolica europea dove ho parlato di aborto. Uno dei miei amici è rimasto scioccato! Ho letto un libro in cui l’autore, di cui non ricordo il nome, diceva che l’aborto era il sacrificio di un bambino, e che era favorevole a questo sacrificio. Questo è quanto di più orrendo si possa immaginare. Nella Bibbia, la protezione dei bambini appare accanto a quella dei disabili, dei lebbrosi, degli storpi. Queste sono le vittime preferenziali delle società antiche, e noi capiamo che dobbiamo proteggerli. Noi proteggiamo ancora gli storpi, gli handicappati, ma al centro di tutto ciò troviamo una sorta di cancro che cresce, che è il ritorno all’infanticidio. Questo è un argomento decisivo, che pochi prenderanno in considerazione: chi difende l’aborto cerca di far tornare la nostra società alla barbarie precristiana”.

 

Vedeva un pericolo nel prometeismo: “E’ un mondo in cui le forze naturali vengono manipolate senza inibizioni religiose e il progresso tecnologico diventa possibile con tutte le sue benefiche conseguenze, e anche i suoi pericoli, naturalmente, se i beneficiari non rispettano la regola d’oro. Le persone acquisiranno potere, sempre più potere”. E ancora: “In America, come altrove, il fondamentalismo è il risultato della rottura di un compromesso secolare tra religione e umanesimo antireligioso. Ed è l’umanesimo antireligioso che è responsabile del crollo. Esso sposa dottrine che partono dall’aborto, che continuano con la manipolazione genetica, e che domani porteranno senza dubbio a forme di eutanasia iperefficienti. Al massimo tra qualche decennio avremo trasformato l’uomo in una piccola macchina del piacere ripugnante, per sempre liberata dal dolore e persino dalla morte, cioè da tutto ciò che, paradossalmente, ci spinge a perseguire qualsiasi tipo di nobile scopo”.

 

“Chi difende l’aborto cerca di far tornare la nostra società alla barbarie precristiana. Sta tornando l’infanticidio”

Pensatore anticonformista e lettore universale, René Girard si fece carico dello scandalo di credere nella verità del cristianesimo in un secolo dedicato al dubbio e alla decostruzione. Figlio di padre anticlericale, curatore del Palais des Papes di Avignone, Girard si separò dalla chiesa a tredici anni per poi osare definirsi “cristiano” a quaranta. “Il nostro mondo, credo, è essenzialmente un conflitto tra una ispirazione giudeo-cristiana e forze più primitive che sono più vicine a qualcosa che potremmo chiamare la ‘natura umana’”. Venuto meno il cristianesimo, diceva Girard, ci saremmo aggrappati ognuno alle proprie “differenze” in una sorta di tribalismo coatto. “Aggrappiamoci tutti alla differenza e siamo ‘noi stessi’” spiegava il grande antropologo.

 

“Potrebbe anche fornirci i quindici minuti di fama che Andy Warhol ci ha promesso a ciascuno di noi. Un mondo in cui la differenza in quanto differenza è il massimo feticcio intellettuale in un mondo in cui l’imitazione e la pressione per il conformismo sarà irresistibile”. La cultura contemporanea è rimasta orfana di questo “nuovo Darwin delle discipline umanistiche”, come lo chiamava Michel Serres. “Nel XIX secolo, l’occidente, traboccante di orgoglio, credeva nella propria virtù, in una sorta di qualità superiore dell’umanità” scrisse Girard in un saggio per la Revue des Deux Mondes. “Oggi ci arrendiamo alla tendenza opposta, il terribile pessimismo. Dobbiamo trovare un linguaggio che dia unità e significato a una cultura che, al momento, vive in un disordine straordinario”. Girard è stato uno degli ultimi giganti della cultura occidentale a cercare di ridarci un po’ di fiato e di significato.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.