Il nostro far west

Elisa Veronica Zucchi

Tra cinema e realtà. Un libro sui film che ci fanno evadere, per condurci in un territorio sospeso

Come fa un consumatore compulsivo di film a mettersi in salvo dalla sua stessa passione? Probabilmente come ha fatto Franco Cordelli, romanziere e critico: narrando il cinema. “Che tutto abbraccia. I giorni e i film” (Falsopiano, 2019, pp. 184) è una raccolta di riflessioni sul cinema, perlopiù comprese fra gli anni Settanta e Ottanta, che arriva fino al Duemila. Troviamo memorie, osservazioni e varia umanità.

 

Ad esempio, l’appassionata discussione con i suoi nipoti e l’amico fraterno, il regista Emidio Greco (scomparso nel 2012), sulla coppia Marlene Dietrich-Sternberg. Oppure quello della duplice visione del “Napoléon” di Abel Gance, che fu proiettato al Colosseo nel 1981. Il libro prende in esame film assai diversi fra loro, conosciuti e meno conosciuti; attori, generi e epoche cinematografiche: dal cinema comico muto al cinema espressionista tedesco, a quello underground, western, alla Nouvelle Vague, al Nuovo cinema tedesco degli anni Settanta e Ottanta. È una perspicua analisi del reciproco impatto di cinema e realtà (sociale, culturale, storica), nonché del linguaggio del film come tensione consapevole, e spesso nevrotica, verso un punto di fuga che ci consenta di evadere dallo schermo. Vogliamo dimenticare la cornice ed essere condotti in un territorio sospeso, che potremmo definire il nostro innocente e metaforico far west: quello della solitudine, dell’ignoto, dell’altro, dell’inconscio, del desiderio, del nemico e dell’amico che siamo per noi stessi e per gli altri.

 

Ecco, è proprio in questa vasta prateria che dobbiamo e possiamo cercare il nostro “sosia pellerossa”: non tanto per risolvere un enigma, quanto per abbracciare la sua e la nostra specifica verità e innocenza. “In ogni western di rango c’è un individuo solo al centro di uno spazio sterminato”, afferma Cordelli, citando, fra gli altri, “Ombre rosse” di Ford, “Mezzogiorno di fuoco” di Zinnemann, “Il cavaliere della valle solitaria” di Stevens e “Ultima notte a Warlock” di Dmytryk. “Il western è stato anche cinema allo stato puro […] inno proprio all’innocenza iniziale […]: inno al coraggio individuale, alla solitudine e allo stoicismo”. E proprio da questa solitudine, da questo schermo bianco, in apparenza incontaminato, che bisogna partire. Ma, si sa, il paradosso del cinema – come quello di ogni arte – consiste in una intraducibilità essenziale, in una difficoltà di comunicare esaustivamente la visione. Inevitabile è la menzogna del medium (del mezzo cinematografico) che, pur riguardandoci, solcando la soglia della vita, nondimeno oltrepassandola e, talvolta, superandola, ci ipnotizza e disorienta. Anche la distinzione “vita uguale verità” da un lato, e “film uguale menzogna” dall’altro, pare arbitraria, quando il film penetra la realtà a tal punto da restituirci il senso più profondo della nostra relazione con noi stessi, con la società, con gli avvenimenti storici (che la storia non sia, in fondo, che il romanzo dello storico?). Realtà vera e falsa, romanzata, falsata, e cinema veritiero, in grado di rivelarci il vero e, di conseguenza, il falso, si intersecano, si imitano, traggono linfa vitale l’una dall’altro. Cordelli stesso ci offre un’importante chiave di lettura, suggerendoci di rivolgerci a René Girard, e al suo libro “Menzogna romantica e verità romanzesca”: siamo sicuri, si chiede il filosofo prendendo in esame il capolavoro di Cervantes, che “Don Chisciotte sia l’idealista e Sancio Panza il realista”? Siamo davvero i detentori del nostro desiderio? Chi desidera? Solamente combattiamo, tragicomici, con i mulini a vento del nostro anelito? Il primo saggio – perché le riflessioni di Cordelli sono saggi brevi – s’intitola, non a caso, “Addio all’infanzia”: in esso lo scrittore avverte del pericolo della comicità come ideologia, come infantilismo e provocazione fine a se stessa o reazione autoreferenziale agli accadimenti. Mentre passa in rassegna gli eroi dei film comici – Buster Keaton e la sua “intangibilità”, il suo “ideale ultramondano”; Chaplin e il suo “beffardo masochismo” (P. Handke); Harold Lloyd, “mistico dell’ottusità” e “ritratto perfetto dell’uomo-massa”; infine Totò e la sua “sublime ipocrisia” – si ha fra le righe l’impressione che accolga con affetto l’utopia di Keaton, la “purezza straziante del suo narcisismo”, la sua “assenza dal mondo”. Quale fuga è più perfetta? Ne “I giorni del ’36” (1972) di Angelopoulus la prigione è la “metafora privilegiata”: “Il mondo è ridotto allo stato larvale come se ogni possibilità di durata fosse concessa niente altro che al teatro, al situarsi fuori dal mondo”.

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