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Lo spread della letalità fra Italia e Germania

Manlio Pisu

Da noi i decessi sono il 12,7% dei contagiati da coronavirus, fra i tedeschi il 2,7%. Perché lo stesso shock produce effetti così asimmetrici? Due sistemi, ancora una volta, a confronto

Nel dibattito sulla pandemia in corso, talvolta inquinato da vane polemiche, ci sono due numeri che meritano attenzione: 2,3% e 12,7%. Sintetizzano il tasso di letalità, cioè il rapporto tra contagiati censiti e decessi, che il coronavirus registra rispettivamente in Germania e in Italia.

Un differenziale così ampio porta con sé un interrogativo: perché lo stesso shock produce effetti così asimmetrici?

 

La raccolta di dati omogenei e attendibili sugli effetti del Covid-19 è uno dei problemi che la comunità scientifica internazionale ad oggi non ha risolto. Tuttavia, stando alle rilevazioni della John Hopkins University, che aggiorna quotidianamente sul proprio sito i flussi informativi provenienti da tutto il mondo, la Germania contava all’11 aprile scorso 125.975 casi di contagio e 2.907 morti, ovvero circa 2,3% per ogni 100 malati. Alla stessa data i contagi censiti in Italia erano 156.363 a fronte di 19.899 decessi, con un rapporto di 12,7 morti ogni 100 malati.

Con ciò i due Paesi si collocano ai due estremi opposti della forbice: l’Italia detiene il triste primato del tasso di letalità più alto del mondo, mentre la Germania si conquista il primo posto nella lotta al coronavirus, registrando il tasso di letalità più basso del mondo.

 

Ancora una volta i sistemi-Paese di Italia e Germania si trovano a confrontarsi reciprocamente. Non sul campo di calcio e neanche sul terreno dello spread, il differenziale di rendimento fra Btp e Bund, i titoli di Stato italiani e tedeschi a scadenza decennale, che condiziona pesantemente l’andamento dei mercati azionari e il rifinanziamento del debito pubblico del nostro Paese. In questo caso il confronto riguarda il lethality spread, il differenziale di letalità da coronavirus, che misura la diversa capacità di resilienza di due sistemi a fronte del medesimo shock sanitario. 

 

Il primato tedesco ha attirato nei giorni scorsi l’attenzione del New York Times, che si è interrogato sui motivi di una presunta “eccezione tedesca”. Il virus diffuso in Germania è meno aggressivo rispetto a quello che circola nel resto del mondo? Oppure trova in Germania condizioni di contrasto più efficaci?

La conclusione cui arriva il NYT è che il tasso di letalità sia in Germania così basso a causa di diversi fattori, riconducibili innanzi tutto all’efficienza del sistema sanitario tedesco: dotazione delle precauzioni di base a tutela del personale medico-sanitario (mascherine, occhiali, camici speciali); ampia capacità di accoglienza nei reparti di terapia intensiva; ricoveri precoci anche in presenza di sintomi lievi; ricorso massiccio ai test tramite tampone. In secondo luogo, secondo il NYT, l’“eccezione tedesca” è dovuta alla chiarezza delle indicazioni fornite dai decisori politici e al senso di responsabilità della popolazione nel dare attuazione alle misure di contrasto.

 

Questo mix consente alla Germania di affrontare l’emergenza da coronavirus in condizioni di forza rispetto ad altri Paesi. Il risultato è che il lockdown del sistema produttivo tedesco ha un impatto assai meno paralizzante che altrove, mentre sul fronte dei conti pubblici lo spazio di manovra conquistato grazie alla consolidata disciplina di bilancio consente interventi di politica economico-finanziaria straordinariamente espansivi, facendo ricorso a risorse interne. Tutto lascia supporre, quindi, che la ripartenza post-epidemia sarà in Germania più veloce e più forte che altrove.

 

Nel Bel Paese, invece, il lethality spread mette in luce ancora una volta le debolezze di un sistema fragilissimo. Lo sforzo collettivo degli italiani è stato imponente. Ciò nonostante il coronavirus ha riportato al pettine nodi vecchi e vecchissimi, ad oggi mai sciolti. Non solo i fallimenti nella gestione dell’emergenza come l’altissimo numero di “caduti” tra le fila del personale medico-sanitario, impegnato a combattere a mani nude sulla prima linea del fronte, senza i più elementari dispositivi di protezione; la sottovalutazione dei focolai di diffusione del virus nelle residenze per anziani; l’esodo massiccio Nord-Sud anche per effetto di indicazioni confuse e malgestite; i numerosi episodi di indisciplina verso le disposizioni d’emergenza a contrasto dell’epidemia. 

 

Il differenziale di letalità ci sbatte in faccia anche un’altra amara verità, che nessuno nel dibattito pubblico attuale ha voglia di sentirsi ricordare: quanto sia stata miope e autolesionistica la scelta fatta dagli italiani, come popolo e come Paese, di voltare le spalle negli ultimi trent’anni alla regola aurea del buon padre di famiglia, in base alla quale le uscite devono essere correlate alle entrate ed è consentito indebitarsi solo per spese che servano a costruire il futuro (gli investimenti). In altre parole, quanto sia stato miope buttare a mare, di fatto, gli impegni di Maastricht del ‘92, che altro non sono se non la regola aurea del buon padre di famiglia trasposta al livello di finanze pubbliche.

 

Mentre nel Paese prevale l’esultanza per la rottamazione del Patto di stabilità, il corollario di Maastricht impropriamente percepito nella Penisola come un cappio al collo, gli italiani si trovano oggi – proprio per non aver voluto fare i “compiti a casa” – ad affrontare l’emergenza coronavirus ancora più indebitati rispetto a trent’anni fa e senza spazio di manovra in bilancio per attenuare l’impatto di una recessione che si preannuncia gravissima. Da qui l’esigenza di bussare alle porte altrui per chiedere aiuto e soldi. Da qui la polemica stucchevole sul Mes e il braccio di ferro con la Ue.

 

Trent’anni fa, quando Andreotti e Carli firmarono il trattato di Maastricht, considerandolo un’opportunità palingenetica di riscatto per il nostro Paese, l’Italia era il Sorgenkind d’Europa, il bambino difficile che destava forti preoccupazioni in tutte le cancellerie del Vecchio Continente. Trent’anni dopo siamo ancora il Sorgenkind d’Europa, bambino difficile e capriccioso come non mai, capace solo di dare la colpa agli altri anziché riconoscere le proprie mancanze. La pandemia ci ha colto deboli, vulnerabili, impreparati. È ora di stare a casa e di metterci finalmente a fare i compiti che fino a questo momento non abbiamo voluto fare.

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