Particolare di “Grimaces et misère - Les Saltimbanques” di Fernand Pelez (1888, 2,22 x 6,10 m, Petit Palais, musée des Beaux-arts de la Ville de Paris)

Il popolo degli ultimi che il virus ha già spazzato via

Francesco Palmieri

E’ l’esercito invisibile di nomadi, mendicanti, senzatetto, sofferenti psichici. Ma anche i circensi, i giostrai, gli ambulanti abusivi. Con questa epidemia ogni povertà si fa più acuta, più straziante e pure più insopportabile

Stavolta, alla fine, avrà comunque torto don Abbondio o chi di noi tra poco o molto tempo lo impersonerà: “E’ stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più”. Stavolta, alla fine, avrà piuttosto ragione Borges o chi di noi tra poco o molto tempo mormorerà i suoi versi: “Mi commuovono le minute sapienze / che in ogni trapasso d’uomo si perdono / – abitudini di certi libri, di una chiave, di un corpo / fra gli altri”. Saranno troppe quelle minute sapienze per farne una Spoon River, che come ogni cimitero letterario simula ma non può riprodurre l’imprecisa vastità di un camposanto. Né ci sarà alcun don Rodrigo tra i morti di (o per, o con) coronavirus.

 

Senza identità memorabile già in tempi ordinari, il popolo degli invisibili si fa vieppiù impalpabile nei momenti eccezionali

Nessuna identità, finché ci sia qualcuno che ne serbi memoria personale (per certi libri, una chiave, per quel corpo o quell’unico viso fra tutti quanti gli altri) annegherà così presto dentro i numeri della statistica. Stavolta, alla fine, non ci saranno fosse comuni anche se le bare sono state così tante che hanno dovuto caricarle sui camion militari.

 

Intanto però nel doppiofondo dell’epidemia, nel concavo risvolto della quarantena, resta celato il popolo degli invisibili. Sano o malato. Vivo o morto. Senza identità memorabile già in tempi ordinari, quel popolo si fa vieppiù impalpabile nelle statistiche dei momenti eccezionali. Sfugge alla conta dei tamponi e alle stime degli asintomatici. Non risulta all’elenco dei ricoverati e dei deceduti (di, per, o con coronavirus). Senzatetto, mendicanti, migranti, nomadi, sofferenti psichici, ma pure circensi, giostrai, ambulanti abusivi, artisti di strada, lavavetri, venditori di rose e profumi contraffatti, di fazzolettini, calzini, penne a sfera. Ma poi ancora quelli che nell’underworld occupano le posizioni meno nobili. Quelli ai confini o al di là della legge. Che fine hanno fatto.

 

Le catastrofi nazionali, e questa del coronavirus è la prima per chi non abbia vissuto la Seconda guerra mondiale, stravolgono la superficie economica e sociale ma ne scuotono anche le profondità, quelle fosse marine in cui si presumono adesso insabbiate, rifugiate o non registrate per vive né per morte le masse del lumpenproletariat che già spregiava Karl Marx, le ombre dickensiane, i paria, i fuori casta. Che fine hanno fatto? Nella desolazione temporanea di un Medio Evo com’è immaginato dal mainstream, c’è forse una Corte dei Miracoli dove si radunano quelle masse – sfidando il contagio o subendolo senza registri statistici – come a beneficio del mainstream ottocentesco immaginò Victor Hugo nella Parigi del gobbo Quasimodo. C’è una Corte, o più d’una, che cova sotto gli incubi notturni di chi già teme il virus, di chi è costretto a casa, alle file in farmacia o al supermercato, di chi come Quasimodo vede dall’alto della sua Notre-Dame assediata “distintamente brulicare sul Sagrato uno spaventoso gregge di uomini e di donne cenciosi, armati di falci, di picche, di roncole, di partigiane, le mille punte delle quali sfavillavano. Neri forconi mettevano qua e là delle corna a quelle orribili facce”.

 

Le catastrofi nazionali stravolgono la superficie economica e sociale ma ne scuotono anche le profondità

Lo scenario surreale di paesaggi urbani spopolati di cristiani e ripopolati di gabbiani, dove la quiete acustica di una perenne alba domenicale enfatizza ogni sparuto rumore, e lo rende più minaccioso, suggerirebbe a Jung una carrellata di archetipi depositati nelle cantine dell’inconscio collettivo. Né il cicaleccio della prolungata connessione ai social né la straniante pressione di un telelavoro forzoso possono abolirle, certe paure, specie nell’ora che sui balconi non resta più nessuno a cantare o additare, sentendo da giù la ritmica cadenza dei passi, il biasimato passaggio di sporadici runner.

 

Chissà dove sono finiti, “quelli che si arrangiavano”. Chissà dove sono nascosti “gli straccioni di sotto” che Quasimodo scrutava dalle gotiche altezze di Notre-Dame, e che occupavano fino a poche settimane fa i titoli d’apertura dei telegiornali per ogni bastimento in approdo, per qualunque barcone fluttuasse nel controverso limbo d’acqua tra la Libia, Malta e la Sicilia. E come sembrano remoti quei duelli politici e le reciproche denunce, quelle aule e le giunte, i gip e i pm, le guardie costiere, adesso che Camere e tribunali sono semideserti e per le strade, o nei grandi parchi di Roma e Milano, è quasi solo un volo di tortore e gabbiani, di merli e cornacchie che obbediscono comunque a questa bisestile primavera.

 

Eppure ci sono. “Quelli che si arrangiavano” ci sono tutti. Né si sono improvvisamente disciolti nell’incubo o nell’oblio della preponderante popolazione in quarantena. “Sì, chiamiamoli ‘invisibili’. Non riuscirei nemmeno a stabilire il numero preciso di quanti ne assistiamo: mica sono solamente migranti o senza fissa dimora. Ci sono gli anziani soli in casa o i sofferenti psichici che vivono in famiglia e adesso sono costretti alla quarantena. Prima, fino al coronavirus, per molti di loro sopperiva anche il vicinato, almeno per le esigenze spicciole della quotidianità. Ora con lo stato d’emergenza della pandemia ogni povertà si fa più acuta, sia economica sia umana, e ogni dignità si fa più fragile”, racconta don Andrea La Regina, responsabile dei macroprogetti ed emergenze per la Caritas Italiana. Masse di “invisibili” spariti dalle strade sono rifugiati nelle strutture sparse sul territorio nazionale. Ci sono centri d’ascolto, mense, ambulatori. Ci sono soprattutto i dormitori, quando manca un domicilio dove volontari o istituzioni pubbliche possano consegnare pasti e medicinali. “Abbiamo dovuto rimodulare i nostri servizi per rispettare le misure di distanziamento sociale e isolamento introdotte per il coronavirus”, dice don Andrea, “e non è facile tenere chi assistiamo al coperto, in quarantena anche di giorno oltre ai normali orari dei dormitori. Però siamo riusciti ad allestire o adattare diverse strutture religiose, come quella della Caritas di Roma a Sacrofano. Più o meno ce ne sono una trentina sul territorio nazionale”.

 

“Ora con l’emergenza della pandemia ogni povertà si fa più acuta, sia economica sia umana, e ogni dignità si fa più fragile”

Gli “invisibili” nei tempi ordinari non suscitano necrologi ma producono cronaca, generalmente nera. Nei tempi straordinari producono leggende, e quelle che si sentono sono di tutti i colori. Si sente quella – ma poi chissà se non sia vera – che il Covid-19 non attacca i neri, cui la natura avrebbe regalato almeno in questa circostanza un privilegio invidiabile. L’ipotesi l’ha rilanciata seppure con le pinze l’infettivologo dell’Ospedale Sacco, Massimo Galli: certe etnie di discendenza africana potrebbero contare su un fattore protettivo maggiore nei confronti del virus, rafforzato dall’età media più bassa rispetto alla popolazione italiana. E c’è chi dice che la vaccinazione di massa contro la tubercolosi abbia protetto maggiormente gli immigrati residenti in Italia. Leggende, verità? Si saprà dopo. Eppure per esperienza diretta don Andrea informa che tra il popolo degli “invisibili” la paura per l’epidemia serpeggia come ovunque. Persino di più: “Gli africani non riescono, nemmeno culturalmente, a comprendere con esattezza ciò che sta accadendo”. Altrettanta incertezza grava sin dall’inizio della pandemia sui rom e i nomadi circensi, soprattutto quelli che si sono trovati nei posti più colpiti come le province di Bergamo e di Brescia: “Non era il loro luogo di residenza e si poneva il problema di chi avesse il compito di provvedere per quanti si trovavano in quel momento nelle zone rosse da dove non si potevano più muovere”.

 

E’ che viste in astratto, dal balcone di una quarantena o dalle guglie di Notre-Dame, cose e persone sembrano non solo più minacciose ma più semplici, come nei quadri corali di Micco Spadaro dove la calca secentesca della sommossa o di una processione satura la piazza e si capisce che è marea, ma non si riconosce neanche un volto. Solo scendendo si possono vedere, una per una, le facce che trasformano i numeri in singoli individui. Ogni quarantena è pertanto diversa per ciascuno tra i senza fissa dimora dei dormitori e delle mense. Se non lo sai per esperienza, te lo racconta bene Il sole dei morenti di Jean-Claude Izzo grazie alla voce del clochard Rico, il quale non sopporta la dama di carità Madame Mercier che cucina tuttavia un ottimo merluzzo alla provenzale per i poveri. E il suo conflitto è che “per mangiare bisognava beccarsi due minuti di raccoglimento e poi pregare. Il Padre nostro, sempre, seguito da intenzioni cazzute per San Vincenzo de’ Paoli, l’‘amico dei poveri’, per Notre-Dame-du-bon-Conseil e per tutta una serie di santi, ogni volta diversi, di cui a Rico non fregava assolutamente niente”.

 

Ma forse “meglio una predica e un cantico che rimanere sul marciapiede” o forse no, perché Rico “passò un’ora d’inferno che gli ricordò tristemente gli anni dell’infanzia e i corsi obbligatori di religione”, prima del merluzzo alla provenzale che neanche ricordava più da quanto tempo avesse mangiato l’ultima volta.

 

Nei tempi ordinari non suscitano necrologi ma producono cronaca, generalmente nera. Nei tempi straordinari producono leggende

E’ che in questa triste quarantena collettiva, per non vestire la giubba del Tartufo – né all’opposto quella del Kappler da balcone, che addita il podista come prima il migrante o il clochard quale possibile untore – bisogna fare il tampone a ogni retorica e risultarne negativi.

 

Perciò va detto: i senzatetto sono come Rico del romanzo di Izzo ma anche molto peggio, l’underworld è denso pure delle infamità. Consolidato fu nella Napoli passata il “mestiere” del mendicante non per chi fosse causa miseria prostrato dalla fame, ma per scelta prettamente delinquenziale: “I mendicanti di mestiere simulano piaghe fasciandosi una gamba od un braccio, fingono la cecità ponendosi delle bende, fingono altri malanni con le stampelle, con il camminare curvi, strascinandosi o tremando come paralitici. Essi quando non hanno figli adatti allo scopo, spesso, pigliano in affitto una ragazzetta, od un fanciullo che li accompagni, e che, all’uopo insegnato, con voce tenera chiegga l’elemosina per il povero padre cieco o zoppo, mentre quell’accattone è un estraneo che alla sera paga trenta o quaranta centesimi per il fitto della voce”. Questo ci lascia scritto, in uno studio frutto della propria esperienza professionale, il funzionario di Pubblica Sicurezza Eugenio De Cosa, in Camorra e malavita a Napoli agli inizi del Novecento, testo dedicato “ai martiri della povera Polizia Italiana” nel 1908. L’affitto giornaliero dei bambini aveva un florido mercato perché le loro voci, “a simiglianza di quelle di un teatro si pagano di più o di meno, a seconda la loro abilità e la loro insistenza nel colpire le orecchie dei pietosi, o nel correre dietro al signore, o dietro una carrozza”. La fantasia si prestava al raggiro. Riferisce infatti De Cosa, che “altra volta è una suora (di un ordine mai esistito) vestita in modo strano, che accompagna una fanciulletta la quale vi chiede l’elemosina per le povere orfanelle”.

 

I mendici di professione cavalcarono, sovente fiancheggiando le attività della camorra, le ondate epidemiche di colera dell’Ottocento con le loro regole e ruoli precisi (dal “torniere”, ossia il mendicante che si spostava continuamente per la città, alla “colonna”, cioè l’accattone a posto fisso, fino ai “S. Giuseppe e la Madonna”, una coppia mista generalmente costituita da marito e moglie).

 

L’ambiguità e la gamma dell’underworld sono state e sono inafferrabili. Non era, non è la popolazione sommersa e affaticata degli assistiti dalla Caritas, ma al contrario quella che ne rifugge perché si arrangia – da sempre – da sé in maniera fluida e per forza cinica. Non arrivò a capirla Renato Fucini, che pubblicò il suo ur-reportage su Napoli nel 1878 puntando allo stupore (e all’orrore) del lettore “italiano”. La capì benissimo il poeta e giornalista Ferdinando Russo, che fece e fu più e meglio dell’Evaristo Carriego raccontato da Borges per Buenos Aires. Traspose in versi la cronaca nera e raccontò di quella grotta realmente esistita, e assai sconsigliabile agli estranei, dove “nce truvate ‘a vajassa, ‘o cammurristo,/janare e mariuole, a riggimente,/zingare smaleritte ‘a Giesù Cristo…”.

 

Tra il popolo degli “invisibili” la paura per l’epidemia serpeggia come ovunque. Persino di più. Africani e nomadi circensi

Soggetti di quel tempo e di ogni tempo imparentati, oltre tutte le retoriche, a quei parcheggiatori abusivi che hanno repentinamente riconvertito il proprio business illegale dopo lo scoppio della pandemia ai primi di questo marzo. Hanno condotto proprio davanti all’ospedale Loreto Mare, finché non sono stati scoperti dalla Guardia di Finanza, un traffico di mascherine chirurgiche incettate presso le farmacie con il tempismo previdente di chi conosce “l’arte di arrangiarsi” anche nell’epoca delle emergenze. Prezzo al pubblico quattro euro l’una, con fornitura di guanti monouso per pescare la mascherina dalla scatola e garantire ai clienti successivi l’asetticità del prodotto in offerta.

 

Sciacalli, però niente di nuovo sotto il sole malato di ogni epidemia, di ogni guerra, di ogni disastro umano o naturale.

 

Niente retorica, sciacalli e poeti, in ogni guerra, in ogni epidemia, migliorano o peggiorano e vivono e muoiono. Se però c’è una retorica infrangibile è quella del ricordare gli altri dopo. Di ricordarli solo una volta che sian morti: ha riscosso pochi giorni fa l’onore di un articolo con foto, nella cronaca locale di Bari, il senzatetto Vittorio Cosentino, trovato senza vita in una ex caserma occupata dove si rifugiava di notte. Deceduto “in seguito a un malore” (quindi non di, per o con coronavirus), è stato celebrato postumo come attore di strada e “intellettuale”. Si legge nell’obituary che fu tra i fondatori del collettivo Kismet, “da cui è nato il teatro e il laboratorio di prosa più attivo della regione. Amava portare il teatro tra la gente, per strada”. Gran repertorio classico, da Shakespeare a Molière, non solamente a Bari ma con qualche puntata a Napoli, sempre tenendo scena sugli spazi liberi che aveva scelto. Per vivere, recitare, morire. Senza retorica. Piuttosto come “un mestiere”, avrebbe osservato con asciuttezza il poliziotto De Cosa, per certo assai più bello di tutti quelli censiti nel suo libro. Sempre nell’underworld, però.

 

Chissà che fine hanno fatto i chiromanti, i veggenti, i lettori di tarocchi. Un futuro che (anche) stavolta nessuno aveva previsto

L’epidemia distrae da quelli che muoiono nel frattempo favorendo, poiché succede adesso, l’invisibilità del passaggio sotto l’assordante contabilità quotidiana della Protezione Civile. Chissà che fine hanno fatto, in queste settimane, i chiromanti, i veggenti, i lettori di tarocchi. Insomma gli adepti di quel mondo al confine tra lo studio nobile e il banchetto a piazza Navona fra un musicista di strada e il pittore turistico. Chissà dove s’è isolata tutta la gente dell’underworld assorta nella premonizione di un futuro che (anche) stavolta nessuno aveva previsto. Nemmeno loro con gli Arcani di Marsiglia.

 

E’ che stavolta l’esperienza si guarda da dentro, mentre uno l’epidemia la subisce e per la prima volta nella vita non può uscire di casa senza un giustificato lasciapassare, mentre gli sguardi sospettosi di chi incroci ti sbalordiscono sopra la mascherina sanitaria per un’inaspettata ansia ostile. Insomma vista da dentro l’epidemia di oggi somiglia pure a quelle di ieri, di cui avevi solamente saputo dai libri, dai film, stando sul tuo balcone di lettore o spettatore da cui è facile mostrarsi giudizioso e razionale, ironico o tagliente. Fu valutato un po’ sconclusionato quel film scritto da Zavattini e diretto da De Sica. Era il 1961 quando uscì Il giudizio universale, annunciato “alle 18” da un’autoritaria voce celeste, dalla voce di Dio, all’indaffarata folla napoletana. Di colpo, così, come l’arrivo della possibile chiamata a morte per (o di, o con) coronavirus. Quando la macchina da presa scende tra la folla ammucchiata con gli occhi verso l’alto in piazza Plebiscito, non è più un quadro di Micco Spadaro ma una magia di De Sica, per cui ciascuno ha un volto così peculiare, anzi caratteristico per espressione, per bruttezza o bellezza o meschinità. Sarà per ordine alfabetico il giudizio universale, e incancellabile è l’esultanza di un fragilissimo vecchietto che grida: “Mi chiamo Zuzzurro!”. Il cognome che chiunque, scoccando quotidiano il nefasto bollettino del coronavirus, vorrebbe in faccia al rischio ostentare. (Oltre all’acquisto di un cornetto portafortuna a cento lire, che pure questo De Sica ci mette).

 

È che poi, quando è finito – incompiutamente – tutto, tutti tornano alla normalità come se niente fosse accaduto. Solamente un acquazzone. I visibili torneranno visibili, gli invisibili rimarranno invisibili. Sarà servita a qualcosa o per nulla l’esperienza? O ciascuno esibirà il proprio cognome, fosse perfino Abbate e non Zuzzurro, con la massima tranquillità?

 

In questa triste quarantena collettiva, per non vestire la giubba del Tartufo bisogna fare il tampone a ogni retorica e risultarne negativi

Sembra pessimista lo storico Franco Cardini, che vive l’isolamento della quarantena fuori città, nella sua casa toscana vicino a Bagno a Ripoli: “Che il virus circoli tra chi sta ammassato negli slum, tra quelli che raccattano i pomodori, non fa notizia. Certo andranno ad aiutarli. Ma non se ne parla se non quel poco ogni tanto in coda ai telegiornali. Nelle grandi democrazie, della gente che soffre sul serio non frega a nessuno. Gli europei, quando parlano di grandi sofferenze, forse non si rendono conto, per esempio, che sulle montagne afghane dell’Hindu Kush da anni non passa giorno che non arrivi un aereo a mitragliare”. Gli invisibili? “Della gente non innescata nel sistema sociale, lo ripeto, non frega niente a nessuno. Prima non era cosi perché la società non era differenziata come adesso e il ruolo dell’informazione non era tanto strettamente collegato alla gestione del potere. Oggi l’informazione è mirata a ottenere risultati”, sostiene Cardini.

 

“Nell’Europa previroluzionaria c’erano istituzioni caritative gestite soprattuto dalla Chiesa, anche perché non c’era l’idea che lo Stato fosse responsabilie della salute dei cittadini. Anzi”, prosegue Cardini, “si ringraziava il sovrano come un padre se prendeva misure per loro e quelle misure miravano soprattutto a sostenere i meno abbienti, i mendicanti, i poveri. Oggi questa sensibilità non c’è più perché l’informazione democratica ha articolato la società civile, facendo emergere il lumpenproletariat di cui Marx parlava con gran disprezzo, perché non giungeva a maturare una coscienza di classe. Era ed è uno strato di popolazione che non serve. Perciò gli Stati aiutano gli imprenditori, gli operai, il ceto medio e il terziario… Ma i senza dimora, i migranti? Quale interesse c’è ad aiutarli sotto il profilo socioeconomico? C’è solo un interesse umanitario da parte di chi ha una coscienza religiosa oppure di chi serba una visione etica di stampo mazziniano, o socialista, che però oggi credo siano finite piuttosto sotto le scarpe della società”.

 

Può darsi quindi, secondo Cardini, “può benissimo darsi che ci sia chi soffre e si contagia in maniera massiccia con il coronavirus. Può darsi benissimo, ma nessuno gli fa i tamponi, che ci sia una massa ignota che sta male, tossisce, ha la febbre, muore col virus eppure non si sa… Ne muoiono pochi magari, perché al momento per fortuna non risultano lazzaretti come quelli della peste di Marsiglia nel 1720 o di Milano nel 1630. Purtroppo non abbiamo più la cultura o la memoria per ispirarci a certi esempi del passato. Penso a una Maria Luigia di Parma, già prima moglie di Napoleone, che durante il colera del 1831 si dava da fare negli ospedali addirittura imboccando gli ammalati senza paura del contagio. O allo stesso Bonaparte, che a Jaffa nel 1799 visitava i soldati appestati…”.

 

L’underworld adesso, “a parte forse papa Bergoglio e qualche organizzazione umanitaria”, aggiunge Cardini, “non ha veri patrocinatori in Cassazione”. Pure, basterebbe riflettere sull’etimologia di una parola per capire che siamo tutti quanti sotto lo stesso cielo, ed è perciò che “il vocabolo pandemia non ha una radice medica – ricorda lo storico – ma sociologica. È qualcosa che riguarda tutti e tutto il popolo”. Gli inclusi e gli esclusi. “Forse il coronavirus servirà a spiegare ai più giovani quel che i genitori, e i professori, non sono stati più in grado di dirgli. Forse alla fine di questa quarantena recupereremo parzialmente un certo spirito di comunità. Però, magari, m’illudo”.

  

O magari no. Chissà.

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