Emilia-Romagna, la regione che corre

Giuseppe De Filippi

È il luogo del perfetto equilibrio tra mercato, imprenditoria, fondi statali ed europei. E Spiriti animali di successo. Al di là dei risultati del voto, ecco perché dobbiamo tenerci da conto Bologna

C’è un’espressione nella piattaforma che la Confindustria in Emilia-Romagna ha proposto a entrambi i candidati per cui si vota che colpisce e che allo stesso tempo spiega molto, per il suo tono vagamente cinese, o, se preferite, per il suo appello implicito a unire tutte le energie nella direzione della crescita. “La visione di lungo termine delle imprese per l’Emilia-Romagna”, si legge nel documento firmato dal presidente Pietro Ferrari, “è quella di un territorio che deve diventare, all’orizzonte 2030, un punto di riferimento europeo in termini di coerenza tra stili di vita dei cittadini e modello economico”. L’espressione è inusuale e non fa parte del repertorio confindustriale corrente, ha qualcosa di pre-politico e forse perfino di pre-sociologico. Ci vuole dire che, prima di tutto, questa convergenza tra la ampia definizione degli stili di vita e il modello economico esiste già in regione e già ha connotato il suo sviluppo. Ma ne viene colta l’importanza, forse aldilà delle intenzioni di chi ha scritto, anche per le nuove necessarie trasformazioni. Il modello emiliano e romagnolo, ci viene così mostrato, esisteva prima dell’innesto di una tradizione politica forte, socialista prima e comunista poi (con tutte le specificità del caso, generate soprattutto dalla continuità nella responsabilità amministrativa) e quindi virata, mantenendo più o meno lo stesso personale politico, verso un’ispirazione liberaldemocratica, pro-business, favorevole all’integrazione economica internazionale, e che va mantenuta. Ma esplicitarne l’importanza e la necessità non è banale esercizio retorico. E’ la spia di qualche remoto timore, di qualche scricchiolio sociale da cui ci si vuole parare. 


Un modello che ha mantenuto un’ispirazione liberaldemocratica, pro business, favorevole all’integrazione economica


 

Non si tratta semplicemente di spirito di comunità o solidarietà sociale diffusa. Il testo confindustriale, forse perfino ingenuamente, va oltre quelle tradizionali definizioni e quei tradizionali parametri di valutazione del capitale sociale, cioè della ricchezza formativa e relazionale di un territorio, e ne fa una questione di stili di vita, usando un’espressione che si può solo lasciare così abbozzata. Però piena di significati e tutti interessanti. Fatta questa premessa ci avviciniamo ai primi dati quantitativi con altri occhi. Il capitale sociale, appunto, per cominciare a capire qualcosa. Nella pubblicazione recente dell’Istituto Cattaneo, “Allerta rossa per l’onda verde”, Marco Valbruzzi scrive nell’introduzione che “il tessuto sociale regionale è profondamente mutato, a partire dalla sua struttura culturale e demografica. Già oggi l’Emilia-Romagna è la regione con la più alta incidenza di stranieri sulla popolazione (12,3 per cento), praticamente raddoppiata rispetto a 15 anni fa (6,2 per cento) e con la previsione di raddoppiare ulteriormente entro il 2040. Una trasformazione che ovviamente non poteva e non può non lasciare intaccato il capitale sociale di cui è (ancora) ricca e che mette alla prova quel senso civico che è uno dei tratti tipici emiliano-romagnoli”. Il tono di Valbruzzi, in omaggio anche alle analisi di questi giorni sulla mobilità elettorale e sulla intensità dell’“onda verde”, e a causa delle caratteristiche di bassa scolarizzazione dell’immigrazione verso l’Europa e verso l’Italia, è preoccupato. Ma forse tralascia quella che, nel testo confindustriale, diventa anche una forma di ingenua astuzia, dal momento che, come si diceva, il testo degli imprenditori veniva significativamente proposto a entrambi i contendenti, chiedendo quindi sia all’incumbent sia alla rivale di preservare quel modello esemplare di convergenza. Certo, chi ha accompagnato la trasformazione di successo della regione ha, se non altro, la possibilità di dire che il lavoro delle amministrazioni di quest’ultimo trentennio (per riferirsi al momento in cui comincia la trasformazione economica) ha saputo accompagnare, favorire, perfino determinare un processo vincente. Ed è stato un lavoro gigantesco. Ancora nella pubblicazione dell’Istituto Cattaneo si legge che “nel giro di trent’anni l’economia dell’Emilia-Romagna si è completamente riorientata dal mercato interno all’export”. E che negli anni Ottanta le esportazioni contavano per il 15 per cento del pil regionale e oggi viaggiano oltre il 40 per cento. “Innescando processi profondi di trasformazione nell’economia, con riflessi sulla dualizzazione del mercato del lavoro e con una separazione geografica tra territori dinamici e aree che non sono riuscite ad agganciare una ripresa export-oriented”. Vuol dire che la trasformazione di cui sono stati protagonisti in Emilia-Romagna è stata forse la più grande operazione di ammodernamento nell’intera Italia e che è avvenuta – fatto abbastanza sorprendente – dentro a schemi già esistenti. Per essere più chiari, tranne qualche forma importante ma non sempre utilizzata di innovazione finanziaria (con un maggiore ruolo di fondi, private equity, venture capital), il modello è rimasto quello della piccola e media impresa. E la sorpresa è che quel modello, normalmente non caratterizzato da speciali capacità innovative, è invece riuscito a dar spazio a energie impensabili (dove ha potuto: altrove, come si diceva, qualcuno è rimasto indietro). Il balzo dell’export segnalato poco sopra ne è la controprova più oggettiva assieme all’espansione mondiale di aziende emiliane, si pensi alla Mapei (ovviamente più che una media impresa) della famiglia Squinzi, che è stata talmente forte da superare, grazie all’apertura di sedi produttive all’estero, anche la stessa logica dell’export regionale, dell’economia locale. Il punto – strettamente anti-salviniano ma gli elettori non ne sembrano troppo consci – è che questa espansione dell’export, che ha letteralmente salvato l’economia emiliana e romagnola, poteva nascere solo nei due grandi contesti commerciali creati grazie all’azione liberalizzante dell’Unione europea e del processo mondiale di apertura dei mercati. L’Emilia-Romagna è la principale beneficiaria in Italia dell’integrazione commerciale mondiale. 


Negli ultimi tre anni la disoccupazione è scesa vertiginosamente, da più del 12 fino al 4,8 per cento


 

Tempo fa Giuliano Cazzola, ora candidato a questa tornata per +Europa, scriveva che “l’Onnipotente ha voluto fare di Bologna l’ombelico non solo dell’Italia, ma dell’Europa. Il capoluogo e la regione hanno le qualità per divenire sede dell’intelligenza strategica di un nord est che si spinge fino alla dorsale appenninica e si proietta in avanti fino a Vilnius e oltre. Tale scommessa richiede una effettiva capacità di integrazione istituzionale, economica e sociale con le altre regioni interessate”. Qualcosa di tutto ciò è successo o sta succedendo, anche perché la spinta naturale delle imprese nella direzione dell’integrazione indicata da Cazzola è talmente forte da superare le resistenze burocratiche e da aggirare, o si potrebbe dire superare anche le strozzature logistiche, davvero micidiali – si pensi solo a cosa sono costretti ad affrontare le aziende del resistentissimo distretto della ceramica per muovere merci e riceverne a loro volta. L’altro aspetto peculiare, e che stupisce il mondo o almeno smonta i classici canoni dell’economia industriale e degli studi sul rapporto tra investimenti in conoscenza e sviluppo delle imprese, è che in Emilia-Romagna il tessuto di piccole e medie imprese è protagonista cosciente e attivo del processo di scambio positivo tra le varie forme di formazione professionale e di ricerca scientifica e le realizzazioni industriali. La sorpresa (e forse varrebbe la pena di un altro viaggio in Italia per economisti in cerca di premi Nobel) è nella quantità e qualità dello scambio tra università e grandi centri di ricerca e imprese emiliane e romagnole. La chiave, secondo quanto ha scritto Marco Leonardi in un recentissimo contributo, è nell’integrazione tra formazione, politiche del lavoro e imprese, attuata secondo un modello di efficienza eccezionale. Secondo quanto scrive Leonardi molto del risultato ottenuto si deve a “un solo super assessore regionale, Patrizio Bianchi, che ha riunito a sé le deleghe alla scuola, formazione professionale, università, ricerca e lavoro e anche il coordinamento e la gestione dei fondi europei allo sviluppo”. Bianchi, professore noto nel mondo per i suoi studi di Politica industriale e per le applicazioni pratiche che ne ha fatto, sapeva anche cosa farne di questo potere integrato e verticale per incidere sul tessuto produttivo. Partendo dall’idea che al centro degli investimenti e di tutte le forme di sostegno ci dovesse essere la manifattura. Non è un’intuizione banale, e non è un principio semplice da osservare, in un paese in cui in tanti, anche con responsabilità pubbliche nella promozione dell’economia, erano stati incantati da un’idea affascinante ma ingannatrice di terziarizzazione, credendo che invece i destini della manifattura fossero ormai lontani dalle economie mature dell’Europa. Quindi sviluppo favorito per le industrie automotive, con un’integrazione virtuosa che ha portato investimenti di grandi marchi (soprattutto italiani e tedeschi, con questi ultimi naturalmente e geograficamente portati a investire in Veneto ed Emilia-Romagna nel settore dell’auto e delle due ruote). Uno sviluppo che potrebbe consentire di mantenere una forte presenza industriale nel settore anche durante e dopo il salto tecnologico in corso. Perché la forza della produzione emiliano-romagnola nella mobilità in generale, non solo automotive in senso stretto, sta nel patrimonio di conoscenza.

 

Sempre grazie al Patto del lavoro che era al centro della nota scritta da Leonardi e realizzato in regione, si è potuto coinvolgere grandi investitori dell’auto nell’avviamento dell’università consortile Muner, specialista nell’automotive e in grado di trasmettere alle imprese regionali le conoscenze necessarie a non farsi prendere in contropiede dalle trasformazioni industriali, come la transizione verso l’elettrico o verso l’idrogeno e verso la guida intelligente. E ancora: l’accordo su lavoro e formazione ha consentito ad alcuni campioni regionali e piccole multinazionali – per esempio Ima, Dallara e Bonfiglioli – di sviluppare nuove iniziative contando su un forte vantaggio competitivo in termini di conoscenze tecniche e di qualità delle risorse umane. Si scherzava prima, definendo un po’ cinese l’invito a coordinare stili di vita e modello economico, ma in Emilia-Romagna possono porsi un obiettivo di quel genere perché hanno a che fare con un reticolo imprenditoriale fatto davvero di persone animate da animal spirits, forse più di qualunque altra regione italiana. Lo notava ancora Cazzola, scrivendo che “la società emiliana ha bisogno che le si lascino le briglie sul collo perché sa trovare la strada da sola. Sono sempre ragionamenti difficili da fare: ma ci sono motivi antropologici alla base dello sviluppo che si spiegano solo così”. E gli crediamo, mentre cerchiamo di capire come funziona l’interazione tra briglie sciolte e ben fatta programmazione regionale (con sempre la ferita della logistica da curare) e come l’incontro tra queste due tendenze dia l’unicità del modello emiliano e romagnolo. Facendone qualcosa di alternativo anche all’altra regione di successo, la Lombardia, ma fornendo al paese, a chi volesse imitarli, una serie di schemi replicabili. 


“Nel giro di trent’anni l’economia dell’Emilia-Romagna si è completamente riorientata dal mercato interno all’export”


 

Intanto il valore aggiunto dell’economia regionale è aumentato a un ritmo quasi costante negli ultimi tre anni e ben sopra alla media nazionale, il tasso di occupazione, l’indice più importante per il mercato del lavoro, è superiore a quello della Lombardia, ed è arrivato al 71,3 per cento. La disoccupazione, che esprime con più chiarezza il dinamismo dell’incontro tra offerta e domanda di lavoro, è scesa vertiginosamente da più del 12 per cento al 4,8 per cento (quindi in linea con le migliori esperienze europee), mentre, come segnalava ancora Leonardi, il Tecnopolo di Bologna è diventato il primo centro di big data e intelligenza artificiale in Europa, grazie a investimenti regionali, nazionali ed europei. E poi la dimostrazione che animal spirits, imprenditorialità, intervento pubblico e perfino programmazione possono convivere e dare, assieme, buoni frutti. Il modello emiliano-romagnolo non dà soddisfazioni polemiche né ai patiti dello stato né ai fan del mercato. Anzi tende a smontare un po’ tutti gli argomenti da polemisti incalliti. Costringe a riflettere. 


La chiave è nell’integrazione tra formazione, politiche del lavoro e imprese, attuata secondo un modello di efficienza eccezionale 


La principale utility pubblica è la Hera, è in Borsa ma il comune di Bologna ne conserva la maggioranza e di tanto in tanto vende qualche pacchetto di azioni con ottime plusvalenze, basti pensare che in 10 anni il loro valore è triplicato. Mentre l’azienda locale di trasporto pubblica, la Tper, grazie alla qualità del servizio, ha potuto chiedere ai suoi utenti di pagare 50 centesimi in più il prezzo del biglietto, portandolo ai 2 euro su cui si puntava. La stessa cosa che ha fatto la milanese Atm, ma tra polemiche e paure. E invece lì l’aumento è passato senza alcuna lamentela e senza proteste, evidentemente riconoscendo il valore del servizio. La Sanità ha indici tra i migliori a livello europeo, con costi controllati. Uno dei distretti produttivi più forti è quello sanitario, con il fortissimo sviluppo dell’elettromedicale nella zona di Mirandola, più di 100 aziende che seppero reggere anche al terremoto. E che producono usando anche molta plastica monouso, di quella che proprio nessuno vorrebbe eliminare e che nessuno saprebbe come sostituire (fatevi un iniezione con una siringa di cartone o una flebo in tessuto e budello e poi ne parliamo). Per quei prodotti, è il caso di dire salvavita, è stato necessario un emendamento che frenasse il furore della cosiddetta plastic tax. Ecco, se possibile, sarebbe bene evitare altri danni di questo genere (e vale anche per l’estrazione di idrocarburi nel polo ravennate con tutte le specializzazioni ad esso legate), perché il governo centrale non smonti il buon lavoro che sanno fare in regione.