(foto LaPresse)

Due scenari per capire cosa può succedere dopo il voto di domenica

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

 Al direttore - Come ci mancherà lo sguardo intenso e penetrante del gerarca maggiore che annunzia la buona novella dell’èra pentastellata senza povertà, decapitata dei parlamentari fannulloni e profittatori, privati di poltrone e vitalizi, del Parmigiano Reggiano come centro della politica estera, e delle 40 leggi che hanno rivoluzionato la storia d’Italia. Ora dovremo accontentarci della liturgia del “gerarca minore”. Un saluto.

Massimo Teodori 

 


 

Al direttore - Esce Di Maio entra Crimi. Dalla brace alla brace.

Jori Diego Cherubini 

 


 

Al direttore - Lei pensa che in caso di sconfitta di Bonaccini il governo cadrà?

Luca Martoni

I governi di solito cadono quando uno dei partiti che fanno parte della maggioranza è tentato dal capitalizzare il proprio consenso. Se Salvini vincerà in Emilia-Romagna, difficile ma non così impossibile, i tre azionisti di maggioranza del governo, M5s, Pd e Italia viva, usciranno indeboliti a tal punto da essere disposti a qualsiasi cosa pur di non avvicinare la data delle elezioni. Il governo può cadere dunque a due condizioni, in caso di sconfitta di Bonaccini. O perché la Lega riuscirà a fare uno shopping fruttuoso all’interno del gruppo parlamentare del M5s al Senato (così grosso da rendere ininfluente il sostegno di un pezzo di Forza Italia al governo). Oppure perché, in caso di collasso del Pd, uno dei partiti della maggioranza potrebbe essere tentato di staccare la spina e provare a capitalizzare le difficoltà del suo alleato, magari sfruttando il fatto che andare a votare presto prima del referendum significherebbe andare a votare per eleggere un Parlamento non ancora ridotto dal taglio dei parlamentari. E se questo partito, ovvero quello di Renzi, fosse tentato da una mossa del genere, difficile però a oggi da credere, potrebbe anche usare il tema della prescrizione per fare crollare tutto. Chissà.

 


Al direttore - Perché il rango internazionale dell’Italia, si è chiesto ieri Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, “ha subìto il tracollo drammatico di cui è testimone così evidente in queste settimane la crisi in Libia”? Colpa della deriva “oggettivamente anti italiana” dell’Unione a trazione franco-tedesca? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Perfino una persona mite e gentile come Carmelo Papa, l’altro giorno è sbottato e ha twittato: “Alla conferenza sulla Libia la posizione italiana è chiara: non sappiamo che cazzo dire né che cazzo fare, ma siamo fermi nell’idea che i pasti gratis, nella politica interna come in quello internazionale, ci spettino di diritto”. Il fatto è che in passato il nostro paese è stato molto protetto dall’esterno; e oggi non sappiamo che pesci pigliare. Ci frena il nostro “cieco supereuropeismo”? Macché. Semplicemente non vogliamo assumere rischi e non vogliamo investire (energia, uomini, risorse); e se non siamo disposti a investire e ad assumere rischi la nostra non può che essere la politica estera di un paese di seconda fila. Oggi sull’Europa continua a gravare una preoccupante crisi di coesione e l’America non ha più la forza e neppure il consenso interno per reggere il mondo sulle spalle come Atlante, fungendo contemporaneamente da locomotiva economica e da garante della sicurezza militare. Oltretutto, per gli Stati Uniti il medio oriente ha perso importanza: dopo la rivoluzione dello shale, gli Stati Uniti non dipendono più dal petrolio del medio oriente e i mercati mondiali sono meno vulnerabili agli choc (quando in settembre gli strike iraniani hanno bloccato il 50 per cento della produzione saudita il prezzo del petrolio ha registrato solo un’increspatura insignificante); e anche la sopravvivenza di Israele non è più in discussione: il paese vanta un’enorme preponderanza militare, armi nucleari, trattati con i vicini e solide relazioni strategiche con Arabia Saudita, Egitto, ecc. In queste condizioni, prima ci togliamo dalla testa l’idea che i pasti gratis ci spettino di diritto e meglio è. Anche per “stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più stretto e concertato di quello attuale” bisogna darsi una mossa (ad esempio, mandare le nostre truppe in Libia) e toglierci dalla testa che qualcuno ci porti la colazione a letto. 

 

Ma per cambiare le vecchie abitudini bisogna dire agli italiani le cose come stanno (è sempre colpa di qualcun altro: gli americani, la perfida Albione e, appunto, l’asse franco-tedesco). Ad esempio, non sarebbe male se qualcuno lo dicesse in tv: “Vogliamo davvero fermare gli scafisti? Ci mettiamo 10 minuti. Ma c’è un prezzo da pagare: 50 mila uomini in Libia. Ci mandiamo tuo figlio? Leva 2000? Se mi rispondi no, vedi allora di piantarla con il piagnisteo sugli immigrati”. E si potrebbe continuare: “Italiani! Elettori! Inquilini, coinquilini, casigliani! Quando andate a casa e accendete la luce vi chiedete da dove viene? Perché i guai, se continuiamo a dipendere da Russia, Libia e Algeria, ce li andiamo a cercare. Non vogliamo il nucleare, ma possiamo almeno trivellare il gas e il petrolio quando li abbiamo, come in Adriatico e in Basilicata? E il Tap, il gasdotto che trasporterà gas naturale dal mar Caspio in Europa e qualche rigassificatore, per far sì che il gas liquefatto non ce lo portino con le navi, li vogliamo fare o non li vogliamo fare? O ce lo impedisce l’asse franco-tedesco?”. Il punto è che non vogliamo niente – neppure la pace, vogliamo solo essere lasciati in pace – e per questo non contiamo niente. Un grande autore russo ha dato un nome a un sintomo che conserva un carattere universale, al di là dello spazio e del tempo: l’oblomovismo. Un termine che denuncia apatia, alienazione e immobilismo. Per molti italiani, Oblomovka è la vera patria. Per questo, quando c’è di mezzo l’interesse nazionale, solo l’Italia fa eccezione. L’asse franco-tedesco è l’ultimo dei problemi.

Alessandro Maran

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