Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

La fine del bipolarismo populista

Claudio Cerasa

Domenica forse cambierà tutto, ma nell’attesa vale la pena riavvolgere il nastro e pensare a come l’Italia ha reagito alla doppia ondata populista del 2018, mettendo fuori gioco un partito e spappolandone un altro. Vaccini contro l’estremismo esistono, basta saperli cercare

Sarà pur vero che l’Italia è un mezzo disastro, che la crescita del sovranismo sembra essere senza fine, che l’ascesa del nostro nazionalismo non ha eguali in Europa, che il giustizialismo sembra essere diventato parte fondante della nostra costituzione immateriale, che l’Italia continua a essere l’unico paese al mondo in cui l’establishment si trova spesso dalla stessa parte degli antiestablishment e che non c’è nessuno dei grandi paesi europei ad avere contemporaneamente un partito antisistema che ha la maggioranza in Parlamento, un altro che ha la golden share dell’opposizione e un altro, santo cielo, che vale quanto tutti i partiti cosiddetti moderati messi insieme. Sarà pur vero che essere ottimisti in un contesto storico dominato da segnali molto pessimisti somiglia sempre a un’arte che ha a che fare più con le pratiche circensi che con gli equilibri della politica – e quando prima di un’elezione importante si moltiplicano i “comunque vada non cambierà nulla”, “la vita del governo non dipende da questo voto, “in ogni caso l’amministrazione della regione è da considerarsi un modello” significa di solito che da qualche parte qualcuno ha cominciato a sentire un odore simile alla puzza di bruciato.

 

Eppure se si prova ad allargare leggermente il nostro sguardo dai retroscena parlamentari non si potrà non notare che nel giro di diciotto mesi l’Italia che doveva essere dominata per chissà quanto tempo da un bipolarismo populista oggi si ritrova in una condizione politica che neppure i più ottimisti tra noi avrebbero potuto immaginare il giorno dopo il 4 marzo del 2018 quando l’Italia si ritrovò ad affogare sotto l’onda di un doppio populismo e quando come molti di voi ricorderanno un’infinità di osservatori si lasciarono andare a previsioni catastrofiche sul futuro dell’Italia. Non sono passati neppure due anni dalle elezioni-che-hanno-cambiato-il-volto-del-nostro paese e in attesa del possibile tsunami che potrebbe arrivare dall’Emilia-Romagna (si salvi chi può!) la situazione, invertendo l’ordine del famoso aforisma di Flaiano, è certamente seria ma forse non così grave.

 

Nel giro di nemmeno due anni, riavvolgendo il nastro, i due partiti che hanno vinto le elezioni, e che hanno governato insieme per poco più di un anno, hanno compiuto il seguente percorso. Il primo partito antisistema, il M5s, di fronte al magnifico sole della realtà si è sciolto come una palla di neve sottoposta a improvviso calore e le dimissioni di Luigi Di Maio, insieme con il crollo del movimento, insieme con la balcanizzazione del grillismo, sono a significare prima di tutto questo: quando il populismo arriva al governo o a cambiare è il populismo oppure a cambiare è il governo. Il secondo partito antisistema, la Lega, di fronte al magnifico sole della realtà non si è sciolto come una palla di neve, e anzi è riuscito a risucchiare linfa dal M5s più di quanto non abbia fatto per esempio il Pd, ma si è messo fuori gioco da solo (tra suonare la campanella a Palazzo Chigi e suonare un citofono a Bologna qualche differenza c’è) e pur essendo oggi il partito con maggiore popolarità nel paese il Movimento 5 leghe è riuscito nel miracolo di perdere la plancia di comando del governo ed è verosimile anche se non scontato che una sconfitta in Emilia-Romagna possa far saltare gli equilibri del Pd ma forse non quelli del governo.

 

Risultato: i due partiti che il 4 marzo hanno vinto le elezioni e che avrebbero dovuto ribaltare l’Europa come un calzino durante la loro permanenza al governo hanno abbaiato all’Europa senza mordere mai e ora si trovano l’uno fuori dal governo, pur essendo probabilmente maggioranza nel paese, e l’altro ai margini del governo, pur essendo ancora azionista di maggioranza dell’esecutivo (e tra l’altro, a proposito di Europa, i due partiti – un tempo antieuropeisti e pur non avendo perso tali spinte – oggi non fanno le corse per ostentare il proprio antieuropeismo di fronte agli elettori). Le elezioni in Emilia-Romagna potrebbero ovviamente cambiare gli equilibri di questa maggioranza – e dunque meglio scrivere questo pezzo prima che sia troppo tardi! – ma quale che sia il risultato della sfida tra Bonaccini e Borgonzoni quel voto insieme con quello della Calabria permetterà di ricordare una verità sulla quale in pochi avrebbero scommesso nel 2018: l’Italia nonostante tutto resta un paese dominato da una forma più o meno aggiornata del vecchio bipolarismo. Anche lo stesso Partito democratico che dopo il 4 marzo del 2018 sembrava destinato a una morte lenta e dolorosa si ritrova oggi in una condizione che definire di guarigione è probabilmente troppo ma che definire di post convalescenza è forse corretto.

 

Nonostante una doppia scissione (Renzi prima e Calenda poi) e nonostante un governo fatto con un partito con cui il segretario attuale e quello passato avevano promesso che mai e poi mai si sarebbero alleati (il M5s) il Pd almeno stando ai sondaggi viaggia tra il 18 e il 20 per cento e in prospettiva potrebbe persino trarre un certo giovamento dalla presenza al centro di un potenziale soggetto moderato che qualora riuscisse a mettere insieme i suoi protagonisti potrebbe essere per il Pd (e forse non solo per il Pd) una stampella utile un domani per non rimanere ostaggio della vocazione minoritaria (e di altre derive populiste). A questo poi tocca aggiungere che grazie alla presenza di una splendida legge proporzionale con uno sbarramento antispezzatino – la storia recente dell’Italia ci dice che è meglio un proporzionale puro che un maggioritario farlocco – anche l’idea che il Pd possa trasformare l’alleanza emergenziale con il M5s in un’alleanza strutturale è un’idea che esiste ancora nella testa di qualche leader demo-asiatico ma nei fatti non esiste più nella realtà (a meno che non nasca un giorno un listone formato per esempio dal Pd e da una lista Conte). E’ possibile naturalmente che tutto finisca a scatafascio, è possibile che il modello Marcello Foa venga esportato al Quirinale, è possibile che un giorno l’Italia si ritrovi a rimpiangere persino il governo gialloverde, è possibile che un giorno anche gli antipopulisti si ritrovino a rimpiangere persino Luigi Di Maio ma prima di capire se l’odore che arriva dall’Emilia-Romagna somiglia più a un leghismo per un attimo fritto come un tortello o a un Bonaccini improvvisamente arrostito come una salamella si può dire che in Italia i vaccini per combattere il populismo non sono stati sequestrati ma esistono ancora: basta solo saperli cercare.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.