Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista a un comizio poco prima della formazione del governo gialloverde (foto LaPresse)

Polveriera di stelle

Valerio Valentini

Divisioni, giochi di potere, opportunismi, dossier interni e prove goffe di normalizzazione Il M5s festeggia dieci anni con molte idee sul passato e poche sul futuro. Indagine

Roma. Seduto su una poltroncina del Transatlantico, mercoledì scorso Giuseppe Brescia, quasi esorcizzando la paura che le indiscrezioni giornalistiche potessero prendere la consistenza delle cose reali, si faceva aggiornare sulle ultime novità della rassegna stampa. “Quanti sono gli scissionisti, oggi?”. Poi, sorridendo, col tono del divulgatore paziente, il presidente grillino della commissione Affari costituzionali tentava una spiegazione: “Quello che voi cronisti non riuscite a capire è che nel Movimento i dissidi interni hanno ben poco di politico, e molto di personale”. E in effetti è proprio nel tentativo, come dice lui con lessico non casualmente doroteo, di “istituzionalizzare la dialettica”, che Giorgio Trizzino, deputato palermitano cresciuto alla scuola politica di Piersanti Mattarella, s’è messo in testa di “costruire una corrente”. Solo che, come al solito, nel Movimento il dissenso intestino è una bestia strana, un malumore che monta come un impasto lasciato a lievitare e che poi, al dunque, s’affloscia manco fosse un pallone bucato. E così la cena che Trizzino doveva organizzare, mercoledì, e per la quale continuava a cercare un ristorante abbastanza capiente da poter ospitare un numero di partecipanti che sembrava destinato a crescere durante la giornata (“Saremo almeno una quarantina”, diceva a ora di pranzo il capo dei rivoltosi), alla fine è stata annullata. “Per evitare tensioni”, s’è poi giustificato con gli invitati, a cui era stato fatto recapitare un sms che più o meno recitava così: “Vediamoci per una pizza, e per discutere delle cose che nel M5s non vanno”. Stesso argomento che poi anima altre cene, altri aperitivi, in alcuni dei quali comincia ad affacciarsi anche qualche ex parlamentare, non riletto nel 2018 o espulso con ignominia negli anni precedenti, e che ora torna a fiutare l’aria, a capire se nel malcontento generale si possa pescare in qualche modo. “Io a Roma vengo per lavoro”, dice il toscano Massimo Artini, cacciato dal M5s nel 2014. “Ho ancora un buon rapporto con alcuni dei parlamentari, è vero, ma non fantasticate: la mia attività politica è molto blanda”, si schernisce lui, che qualcuno dei deputati descrive come macchinatore occulto della dissidenza.

 

Ed è questo, insomma, il clima alla vigilia del decennale del M5s, che verrà festeggiato a Napoli nel fine settimana, in una manifestazione che è stata preparata con ogni premura dai deputati campani (Cosimo Adelizzi, Andrea Caso e Iolanda Di Stasio), i quali però ora temono di non riuscire a riempire tutti gli spazi dell’Arena Flegrea, complici anche le defezioni di chi vuole far pesare il suo dissenso, sia tra gli eletti (le ex ministre Barbara Lezzi e Giulia Grillo, l’ex sottosegretario Mattia Fantinati), sia tra gli attivisti.

 

La sfida per i nuovi capigruppo si tramuta in faida: cordate e votazioni a oltranza, e intanto sul Def i 24 assenti grillini generano il caos

A volerlo guardare da sotto in su, lasciando l’abisso più profondo della faglia parlamentare per arrivare al cuore del governo, la frattura più delicata è quella tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Che s’è conclamata, dopo settimane di tensione malcelata dovuta alla gestazione di un governo, quello col Pd, che il leader grillino non voleva e che per l’“avvocato del popolo” era invece diventato sempre più allettante, la mattina del 4 settembre scorso, quella della formazione dell’esecutivo rossogiallo. Quando al Quirinale attendevano l’arrivo del premier incaricato, il quale però era costretto ad attendere impazientemente a Palazzo Chigi che Di Maio inviasse la lista coi ministri del M5s. Che però non si materializzava perché il capo grillino pretendeva di avere la certezza che il suo fedelissimo Riccardo Fraccaro fosse sottosegretario unico alla Presidenza del consiglio, senza la compresenza, che sapeva un po’ di commissariamento, di Roberto Chieppa, braccio destro di Conte. E non sapeva, Di Maio, che in verità il nodo, in un gioco di sponda tra gli uffici del premier e il Colle, era già stato risolto dallo stesso Chieppa, che aveva fatto un mezzo passo indietro per poterne fare, in verità, due in avanti, suggerendo a Conte di lasciarlo lì dov’era, a capo della segreteria generale di Palazzo Chigi, ma rafforzandogli i poteri e le deleghe. E Chieppa ne ha subito approfittato per nominare un suo uomo, che lo segue sin dai tempi in cui lui guidava l’Antitrust, a capo dell’Ufficio della segreteria: e così ora è di fatto Ciro Daniele Piro che organizza i Consigli dei ministri e ne redige i verbali, al posto della fu boschiana, e poi giorgettiana, Daria Perrotta.

 

E però, nel gorgo del malumore del M5s, di tutto ciò non arriva che un riverbero distorto, la gibigianna che abbaglia gli occhi di chi, un po’ per suggestione e un po’ per celia, non riconoscendo più la leadership di Di Maio, vagheggia appunto un passaggio di consegne, e di Movimento, tra il giovane usurato e lo scintillante adulto. Il che vale soprattutto per quei deputati e senatori eletti nei collegi uninominali, reclutati da Di Maio alla vigilia del 4 marzo del 2018 come “supercompetenze” e finiti a fare – secondo la definizione condivisa da alcuni di loro, come il senatore campano Ugo Grassi – “gli utili idioti” del Movimento: “Gli abbiamo portato in dote i nostri voti, e la credibilità dei nostri profili di professionisti e docenti, e ci vediamo puntualmente scavalcati – si lamenta Grassi – da gente con molta meno esperienza di noi”.

 

Perché, certo, a detonare la rabbia sopita c’è stata senz’altro la frustrazione delle ambizioni di tanti – giovani e vecchi, veterani della militanza nei MeetUp o acquisizioni dell’ultim’ora – che speravano in un posto da ministro, o se non altro da sottosegretario. E che finisse così, Di Maio un po’ se lo aspettava, specie dopo le reazioni di stizza registrate da chi, come Giulia Grillo o Elisabetta Trenta, Barbara Lezzi o Danilo Toninelli, s’era visto tagliato fuori nel transito dal grilloleghismo al demogrillismo. Ed è per questo che aveva provato, un po’ fittiziamente, a coinvolgere le truppe nella scelta dei nominativi per il sottogoverno, chiedendo a ciascuna commissione di Camera e Senato di indicare una rosa di candidati. Ritrovandosi, però, con una caterva di aspiranti sottosegretari, tra loro in combutta e subito pronti a rinfocolare vecchi screzi, antiche e mai sopite antipatie. L’apoteosi c’è stata nelle commissioni Finanze e Bilancio, ovviamente, chiamate a indicare i contabili grillini da mandare a Via XX Settembre: e lì il confronto, in una riunione svoltasi al Senato e protrattasi per un intero pomeriggio, con tanto di votazioni, riconteggi e contestazioni formali, è sfociato nello scontro frontale tra Laura Castelli e Stefano Buffagni, con rispettivi seguaci al seguito. E il lombardo invocava “discontinuità”, la piemontese si lamentava perché “Stefano è uno che non lavora”, per cui “chi se lo prende uno che lavora poco in ministeri di peso?”, e al contempo è “uno che chiacchiera troppo”, e allora “sai che casino che combinerebbe al Mef?”. E così, per non scontentarli troppo, la Castelli è stata confermata viceministro dell’Economia, Buffagni traslocato con lo stesso incarico al Mise, dove però Stefano Patuanelli s’è ritrovato con una squadra di ben cinque tra viceministri e sottosegretari, e una sottaciuta, divertita tentazione di “delegare tutto e andare in vacanza”.

 

La protesta contro Urgese, fedelissimo di Casalino. “Ci usa come comparse”. E la Siracusano striglia D’Uva: “Crescete”

E nel mentre Di Maio, anziché far sentire la sua voce, si chiudeva in un mutismo sempre più indecifrabile, scacciando le tossine delle lamentazioni dei suoi compagni di movimento come ci si scrolla la polvere dal bavero della giacca. E anzi, prometteva a tutti, nelle ore tribolate delle trattative, che c’erano “margini”, salvo poi eclissarsi quando, a giochi conclusi, in parecchi erano rimasti inevitabilmente delusi, e allora smaniavano per accaparrarsi incarichi sia pure minori, ma comunque buoni per soddisfare un residuo di aspirazione: e così c’è chi, come Davide Crippa, costretto ad abbandonare il suo ufficio da viceministro a Via Veneto brigava, peraltro invano, per diventare almeno questore alla Camera.

 

“Io autoritario?”, continua a ridersela in questi giorni Di Maio. “Io non vedo l’ora di condividere le responsabilità del Movimento”, ripete, come parlando di una rogna di cui sgravarsi. E così sabato, nella festa di Italia 5 stelle a Napoli, annuncerà il tanto a lungo covato “team del futuro”, che poi altro non sarà che una segreteria di partito, con una decina almeno di “facilitatori” chiamati a occuparsi – ciascuno circondato da una squadra di eletti in regioni o comuni e di consulenti tecnici – di vari temi. “Almeno cento persone – dice – avranno così responsabilità diffuse sul territorio”. 

 

E alla stessa logica di demandare gli impacci della leadership risponde la scelta di concedere ai gruppi parlamentari la piena autonomia nella designazione dei capigruppo di Camera e Senato. E però, come quelli che la libertà se la vedono concedere dall’alto e non sanno poi bene che farsene, sia i deputati sia i senatori hanno dato vita a una sfida a metà tra il ridicolo e il patetico. Specie a Montecitorio, dove le congetture e le macchinazioni per individuare il successore di Francesco D’Uva, nel frattempo divenuto questore, vanno avanti da giugno. E perfino nei giorni più convulsi della crisi agostana, quando neppure si sapeva se la legislatura sarebbe proseguita, in Transatlantico i capannelli dei grillini non avevano altro di cui discutere se non della corsa interna per eleggere il nuovo direttivo. Così, quando si sono aperte ufficialmente le consultazioni, si sono presentati in undici. Una schiera di aspiranti capigruppo, tesorieri e delegati d’Aula che ha provocato moti d’imbarazzo perfino agli stessi grillini. Alla fine, anche solo per senso del pudore, la competizione s’è ristretta a tre concorrenti: due dei quali, Anna Macina e Francesco Silvestri, teoricamente riconducibili alla maggioranza vicina a Di Maio, e il terzo, Raffaele Trano, a giocare il ruolo dell’outsider, del collettore dello scontento. E però, a guardare i movimenti delle cordate, si capiva subito che c’erano più umane e più futili ragioni, che non quelle correntizie, ad animare lo scontro. E’ stato chiaro, ad esempio, martedì sera, durante l’assemblea in cui si sono ufficializzate le candidature, quando alcune voci di protesta si sono alzate all’indirizzo di Silvestri. “In squadra con te hai Daniele Del Grosso come delegato d’Aula: ma lui non rendiconta da novembre scorso”. E allora Silvestri s’è alzato e ha detto che sì, d’accordo, c’erano dei ritardi nelle restituzioni dovute al partito e a Rousseau: “Ma Daniele nel frattempo è diventato papà”. “Ma è diventato papà a maggio, e non rendiconta da novembre”, gli hanno risposto dalla platea. “E poi anche io ho partorito poche settimane fa, ma ho sempre pagato”. Ma a quel punto c’è stato il controcanto di chi ha fatto notare che anche Marco Rizzone, schierato da Trano come tesoriere, non era in regola coi versamenti. E via così.

 

Infine, l’esito del voto ha sorpreso più d’uno: perché la Macina ha preso solo 33 voti, Silvestri 67 e Trano, nonostante le accuse di chi gli imputava di voler “licenziare lo staff di comunicazione attuale e appaltare tutto a una società esterna”, 61. E siccome nessuno è arrivato alla maggioranza assoluta di 109 preferenze, e siccome nel M5s la risolutezza non è di casa, ecco che tutto si azzera e si ricomincia daccapo. E ci vorrà un’altra settimana per formalizzare le nuove squadra, e poi altri voti, altri riconteggi, altri (verosimili) nulla di fatto. E così ieri pomeriggio, nel cortile di Montecitorio, le trattative, e le conseguenti malevoli indiscrezioni, erano di nuovo frenetiche come non mai. E mentre Silvestri parlava fitto fitto con la Macina (“La sta convincendo a dargli i suoi voti”), mentre Del Grosso confabulava con l’équipe di Trano (“Già si vende”), Riccardo Tucci – che aveva a suo tempo osato proporre il ballottaggio per evitare lungaggini inconcludenti, ottenendo ovviamente in risposta accuse di “antidemocraticità” – scuoteva il capo sconsolato: “Manco dovessimo scegliere il presidente della Repubblica. Sembriamo dei ragazzini in assemblea d’istituto permanente”.

 

La rottura tra Di Maio e Conte sul ruolo di Fraccaro e Chieppa. Le scorie dello scontro tra Castelli e Buffagni per il Mef

E però, siccome il mondo non segue i tempi dilatati della dialettica grillina, ieri mattina alla Camera s’è rischiato di vedere abortire il governo al primo vero passaggio d’Aula delicato. Perché la nota di aggiornamento al Def, che richiede la maggioranza assoluta, è stata approvata con appena tre voti di margine; e se Enrico Borghi, del Pd, non avesse trattenuto tre esponenti delle Autonomie sulla soglia dell’Emiciclo, già pronti a fuggire per non perdere il treno, e non li avesse implorati di votare, sarebbe venuto giù tutto, visto che gli assenti, tra i grillini, erano addirittura 24, tra cui sei esponenti di governo, compreso Di Maio, formalmente in “missione”. “Quando volevano mandare in galera Sozzani”, sono sbottati i colleghi dell’esecutivo del Pd, riferendosi al voto sull’autorizzazione a procedere nei confronti del deputato forzista di due settimane fa, “il ministro D’Incà ci chiamò uno a uno. Oggi, per votare il Def, dobbiamo aggrapparci a quelli del Misto”. Senza contare, poi, che oltre agli assenti giustificati, ce ne erano, tra i grillini, 14 che semplicemente non si erano presentati. “Questo succede quando non c’è un direttivo operativo”, sbuffava il lombardo Giovanni Currò. “Ma li abbiamo chiamati tutti, uno a uno”, precisava Sergio Battelli, come a insinuare il dubbio che alcune delle defezioni andavano ricondotte a volontà di fronda, più che a malanni o a sciatteria. E i sospetti ricadevano subito su due esponenti del precedente governo non riconfermati: uno è Simone Valente, l’altro Claudio Cominardi. Il quale, però, proprio in quel momento, con l’adrenalina dello scampato pericolo ancora a mezz’aria, si materializzava alla buvette per prendere un caffè, e a chi gli chiedeva il motivo dell’assenza prima rispondeva forse scherzando (“Sono un dissidente, io, si sa”), poi si giustificava, con estremo candore, che lui era “in trasmissione, e non ho fatto in tempo a tornare”. E lungi dal fare autocritica, se la prendeva invece proprio con lo staff del gruppo (“Possibile che non ci sia coordinamento tra i lavori d’Aula e le richieste d’intervento in tv?”), con questo rispolverando un grande classico del malcontento grillino.

 

E cioè, appunto, la comunicazione, e su tutto il grande capo dei “Media specialist” di Montecitorio, quel Fabio Urgese storico fedelissimo di Rocco Casalino. L’ultima protesta ai suoi danni s’è registrata martedì scorso, quando i deputati, ben prima che il voto in Aula desse il responso definitivo, erano stati allertati: “Tutti convocati per un flashmob”. Alla fine, si sono presentati in una trentina, con gli assenti a protestare in chat perché “siamo stanchi di fare le comparse per queste pagliacciate”, e i presenti a dover comunque subire le reprimende dei loro colleghi deputati, com’è capitato a D’Uva, che all’indomani del sit-in s’è visto irridere dalla sua concittadina Matilde Siracusano, berlusconiana di Messina, in mezzo al Transtatlantico: “Ma quand’è che crescete? Ma perché non la finite con queste baracconate?”.

 

Tutto questo, alla Camera. Al Senato la situazione è, se possibile, ancora più esplosiva. E non solo dopo che l’assemblea, il 24 settembre scorso, ha preteso maggiore autonomia e diritto di autodeterminazione. Ma anche perché a Palazzo Madama lo scontento è condiviso da molti dei colonnelli del M5s, che sembrano giocare ad alimentare il malumore per poi poterlo usare a loro piacimento. E’ il caso di Nicola Morra, ad esempio. “Un opportunista che in genere circuisce i dissidenti e se li rivende per ottenere qualcosa”, dice di lui Elena Fattori, che di dissidenza se ne intende. Puntava a un posto da ministro, Morra. “Solo che Luigi m’ha proposto per tre ministeri diversi, e ovviamente non se n’è fatto niente”. Poi c’è Michele Giarrusso, vulcanico senatore catanese che, dopo essere stato sconfitto proprio da Morra nel derby interno per la presidenza della commissione Antimafia, ha deciso di farsi prima pungolatore, e poi dichiarato oppositore di Di Maio. E poi la Taverna, e Paragone, e Licheri e Dessì: tutti perennemente insoddisfatti, ma tutti determinati a speculare sul malcontento interno monopolizzando, ciascuno, la sua fetta di ribellione.

 

Gli ex parlamentari tornano a farsi vivi: “Occhio ad Artini”. Trizzino: “Meglio fare le correnti per formalizzare la dialettica interna”

Per non dire di Barbara Lezzi, che ha vissuto il suo siluramento dal ministero del Sud come un tradimento. Prima ha cercato un posto di ripiego come sottosegretario, quindi ha deciso di capitanare, anche lei, il suo manipolo d’insoddisfatti. E in particolare ha radunato intorno a sé i suoi conterranei pugliesi, e li ha convinti a firmare un emendamento contro la reintroduzione dell’immunità penale per i nuovi gestori dell’Ilva, che di fatto svuota una buona parte del “decreto imprese” in discussione al Senato e rischia di far abortire il salvataggio dello stabilimento tarantino da parte di ArcelorMittal. La scorsa settimana, la Lezzi ha condotto i suoi seguaci al Mise, dove sono stati ricevuti da Patuanelli: e il ministro, che da ex capogruppo conosce bene gli umori della truppa, prima ha tentato la via della mediazione, poi ha alzato le braccia, come a voler scoprire il bluff dei suoi colleghi: “Ognuno in Parlamento si assumerà le sue responsabilità”.

 

Ma anche a Palazzo Madama, le più assillanti incombenze riguardano non già l’attività legislativa, ma la scelta del nuovo direttivo. I candidati, con le rispettive squadre al seguito, sono quattro: e anche qui è richiesta la maggioranza assoluta. Ma siccome il ballottaggio tra il primo e il secondo pare, tanto per cambiare, una scorciatoia antidemocratica, si andrà avanti a oltranza, magari sperando che qualcuno prima o poi desista spontaneamente. E così le prime due votazioni hanno prodotto un esito praticamente identico: primo Gianluca Perilli, già vice di Patuanelli nei quattordici mesi di grilloleghismo, con 44 voti (43 al primo scrutinio); secondo, ed è un risultato che per lui sa di umiliazione, Toninelli con 22 preferenze (25 in prima battuta); a seguire il pugliese Marco Pellegrini e l’umbro Stefano Lucidi.

 

E siccome in questa nebulosa di risentimenti personali e invidie preadolescenziali non ci si fa mancare nulla, anche le relazioni amorose e le amicizie troppo intime valgono ad alimentare il malcontento. E non solo nei confronti della wannabe first lady Virginia Saba, la compagna di Di Maio, ma anche nei confronti di più anonime, meno patinate vestali del Transatlantico. E infatti c’è chi maligna che se Iolanda Di Stasio è stata coinvolta nell’organizzazione di Italia 5 Stelle, almeno in parte lo si debba alla sua sempre più chiacchierata vicinanza a Pietro Dettori, il braccio destro di Casaleggio e dunque fedelissimo di Di Maio. Ma sono volgarità.