Davide Casaleggio (foto LaPresse)

Quei contatti tra Google e Casaleggio sulla web tax, la tassa sgradita al M5s

Valerio Valentini

I 700 milioni di auspicati introiti che il Tesoro non vedrà

Roma. Che si sia trattato di semplici doglianze, o al contrario di richieste esplicite, è difficile da dire. Molto più probabilmente, i contatti tra i vertici di Google e quelli della Casaleggio Associati sono rimasti un po’ sospesi, lì nel mezzo tra i due estremi dove poi si situa la gran parte del mondo delle relazioni tra lobbying e politica. “La web tax, così com’è, non funziona granché”, su questo i dirigenti italiani del colosso di Mountain View e gli esponenti di spicco di Via Morone sono abbastanza concordi. L’ultima volta se lo sono ripetuti a Milano, giovedì scorso, a margine di un evento organizzato proprio dalla Casaleggio sulla “smart company” e l’“evoluzione dell’azienda con la quarta rivoluzione industriale”. E’ stato lì che Davide Casaleggio, insieme ai suoi soci Luca Eleuteri e Maurizio Benzi, hanno incontrato Fabio Vaccarono, il managing director di Google Italia che col mondo grillino, del resto, vanta ottimi rapporti e non da oggi. Già nel giugno del 2018 il suo nome circolava, tra gli esponenti del M5s, come quello dell’auspicato nuovo ad della Rai, dopo che già aveva peraltro calcato il palco di “Sum 01”, la kermesse casaleggese svoltasi a Ivrea nel 2017.

 

 

Sarebbe arduo stabilire se è stato in seguito a questi ultimi incontri, a questi dialoghi, che le “criticità” evidenziate al figlio-padrone di Rousseau sono state recepite dai parlamentari grillini; sta di fatto che anche i senatori del M5s, impegnati in questi giorni nella discussione degli emendamenti alla legge di Bilancio, hanno ricevuto, di recente, osservazioni analoghe provenienti da stessa Google.

 

Osservazioni che riguardano, in particolare, l’articolo 84 della legge di Bilancio al vaglio di Palazzo Madama, quello cioè che introduce la famigerata web tax. Già annunciata lo scorso anno, confermata dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, l’imposta sui servizi digitali entrerà in vigore dal primo gennaio. Ed è già su questo, sui tempi, che si concentrano le critiche degli addetti ai lavori. Perché, va detto, le perplessità delle aziende del settore non sono giunte solo da Google, e non sono state recapitate ai soli senatori grillini. Anzi, la levata di scudi è pressoché generale. La prima perplessità riguarda, come detto, la fretta. Perché l’Ocse ha già annunciato che sulla web tax mira a raggiungere un accordo a livello internazionale, e anche la Commissione europea si è mossa in questa direzione, promettendo un intervento entro la primavera del 2020. Anticipando i tempi, il governo italiano rischia così di creare un danno alle imprese italiane che operano nell’economia digitale, che dovranno concorrere con competitori stranieri non gravati da questo balzello.

 

 

Che ammonta, stando al testo della manovra, al 3 per cento su tutti i servizi digitali. E che però si configura, a ben vedere, come una tassa regressiva. Specie per le piccole e medie imprese italiane che operano nel settore avvalendosi delle vetrine prestigiose dei grandi marketplace (da Amazon a eBay, in giù) per vendere i loro beni e servizi, e che vedranno di fatto applicata ai loro danni una sovrattassa. Il che, in sostanza, inciderà soprattutto sul consumatore, ovvero l’impresa (magari artigiana, dunque con margini non proprio elevati) che usufruisce dell’intermediazione della piattaforma di compravendita, che è quasi sempre un grande player internazionale. Ebbene, la dinamica che verosimilmente s’innescherà farà sì che quest’ultimo non farà altro che aumentare il prezzo del proprio servizio d’intermediazione digitale, così da coprirsi le spalle, facendolo però ricadere sull’artigiano. Insomma, una sorta di circolo vizioso che vede nella piccola e media impresa l’anello più debole. Con un ulteriore elemento di rischio che riguarda le possibili ripercussioni sull’export dei prodotti italiani commercializzati dalle imprese proprio attraverso la rete: il che, a catena, potrebbe innescare una contrazione dei volumi realizzati e una conseguente riduzione del gettito per l’erario.

 

Sempre ammesso, peraltro, che poi l’imposta diventi davvero operativa. Gualtieri, in questo senso, si è premurato di evitare che, per l’entrata in vigore della tassa serva un ulteriore decreto attuativo. Entrerà a regime, insomma, con la semplice approvazione della legge di Bilancio. E però, a bene vedere, non sarebbe certo la prima volta che la web tax, dopo annunci roboanti, non vede la luce. Lo sa bene, tra gli altri, anche Francesco Boccia, attuale ministro per gli Affari regionali che sin dal 2013 ha fatto di questa imposta una sua personale crociata, senza riuscire mai a renderla efficace. Anche il governo gialloverde, in ossequio a una tradizione ormai collaudata, s’impegnò ad adottarla. Poi non se ne fece niente, e tutto è stato rimandato alla manovra del 2020. Dove si stima di ricavare una cifra che s’aggira intorno ai 700 milioni: non molto, ma senz’altro utile a coprire le minori entrate previste dopo la ridefinizione al ribasso di altre tasse, dalla plastica alle auto aziendali. Aspettativa comunque assai ambiziosa, visto che anche l’Istituto Bruno Leoni stima al massimo entrate per 145 milioni. Se fosse, anche stavolta, un flop, si aprirebbe insomma un problema anche per la tenuta dei conti.

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